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Cucina toscana tra mare e terra

di Filippo Ronco

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Cucina di terra per gente di mare o cucina di mare per gente di terra? Potrebbe stare tutto qui, dipanarsi lungo le spiagge e le scogliere della Costa degli Etruschi, fino al golfo di Baratti, e trovare infine risposta all’ombra dei Quattro Mori, uno dei simboli di Livorno, il paradosso gastronomico del litorale labronico. Quale paradosso? Quello di racchiudere, quasi di costringere, nei pochi chilometri che separano le sponde del Tirreno dalle colline, le due anime apparentemente opposte del “mangiare” toscano: carne e pesce, campagna e acque salmastre. Il tutto stretto in un abbraccio inestricabile e secolare, fra tradizioni tenaci e abitudini irremovibili. E se, secondo i maligni, nonostante le solidissime tradizioni marinare, in Toscana non si può vantare una cucina tipica di pesce, ebbene, si tratta di cattiveria gratuita. E certamente non veritiera, almeno quando si parla della gastronomia diLivorno e dintorni. Perché la sua tipicità consiste, anzi, proprio in questo: un meticciato continuo, una sorta di contaminazione ininterrotta tra sapori, prodotti e modi di cucinarli. Una tipicità anzi inimitabile, frutto di condizioni particolarissime.

Intendiamoci: tra la Torre del Marzocco e Torre Mozza, in territorio labronico insomma, il pesce -quello tradizionale - lo si mangia e benissimo. E la mancanza di un accento regionale spiccato non sarebbe comunque undifetto. Viceversa: piatti tradizionali e spesso entusiasmanti, come le fritture, i grandi piatti alla brace, la teoria dei crostacei e dei molluschi, sono di casa. Salvo poi, appunto, scoprire che a questo bendiddio si somma il valore aggiunto portato sulle tavole locali dagli effetti del citato “paradosso”: quello di una gastronomia che ci distingue per saper cucinare il pesce anche alla maniera terragnola, mescolando con le risorse dell’entroterra, i sughi, le verdure, i pomodori. Ne sono esempi caratteristici, per citarne alcuni, l’inzimino, seppie con le bietole. Ma basta questo a spiegare l’unicità del mangiare “alla livornese”? Certamente no. Manca ancora un elemento, un ingrediente che non si compra, non si alleva e non si coltiva: lo spirito della gente. Gente impregnata sì di mare fin quanto si vuole, irresistibilmente legata però, come in un abbraccio eterno, anche alla sua terraferma, agli oliveti delle sue colline, alla selvaggina dei suoi boschi.

La parte continentale della provincia di Livorno, del resto, ha una fisionomia che sembra fatta apposta per assecondare questa tendenza: una lunga e stretta striscia schiacciata tra gli alti colli e il mare, fitta dimacchia, nella quale si incontrano borghi e poderi, retaggio signorile di feudi immersi e periferici come fu quello dei Della Gherardesca, per secoli baluardo impenetrabile a una cultura che non fosse quella strettamente terriera. Niente di strano, allora, se ancora oggi e forse per un bel pezzo, anche a poche centinaia di metri dalle onde del Tirreno,al fianco dei famosi ristoranti di pesce, furoreggiano le trattorie, luoghi di culto per il mito popolare del cinghiale e la relativa arte venatoria, i sapori forti degli umidi e delle frattaglie. Le ricette originarie preparate nelle cucine di casa, oggi faticano a trovare spazio nei menu dei ristoranti che, in questi anni le hanno giustamente rivisitate e ingentilite, grazie alla mano abile ed esperta di cuoche di famiglia che si sono reinventate chef nei locali tipici. Specialità che ben si sposano, o meglio una volta si sarebbero sposate, con i robusti rossi locali, frutto di una tradizione che solo oggi, sull’esempio di vignaioli illuminati come Mario Incisa padre della Sassicaia, va nobilitandosi all’inseguimento di suggestioni e rotondità francesi.

E qui si apre un capitolo a parte. Unica, possibile eccezione a questa regola, Livorno città. Eccezione però eccezionale a sua volta, frutto di circostanze irripetibili. Livorno città cosmopolita, interrazziale e multiconfessionale, scanzonata e a suo modo anarchica. Non a caso la specialità livornese per antonomasia, nonché uno dei pochi veri, autentici piatti tipici di pesce della Toscana, è e resta sua maestà il caciucco: zuppa dalla ricetta quantomai ondivaga, arricchita nel suo insieme, e non è poca cosa, di adeguata aneddotica e giusta coreografia, ingredienti impalpabili, ma spesso indispensabili per cogliere fino in fondo il genius loci labronico. Ne deriva che un viaggio eno-cultural-gastronomico in terra livornese non può che dividersi in tappe abbastanza nettamente diversificate. Di cui la prima dedicata al capoluogo e al suo immediato comprensorio.La seconda al corrusco entroterra del cinghiale e dei luminosi, grandi vini. E una terza consacrata, infine, alla fascia costiera, fino a culminare in Piombino: l’ex città-principato che, almeno in tavola, oggi rende omaggio ai sapori del polpo e del mare e resta turisticamente ancora tutta da scoprire.

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Laureato alla Facoltà di Giurisprudenza di Genova nel 2003, ho fatto pratica legale in uno studio per circa 2 anni ma non ho mai provato a dare...

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