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Viaggi enogastronomici

Parmigiano Reggiano a Marola per Opinioni e Cultura (Seconda Parte)

di Luigi Bellucci

Sabato 21 Marzo 2009

La notte è passata in fretta. Dopo la colazione alle otto, eccoci ad aspettare il trasporto verso l’abbazia, che è proprio ai piedi di Marola. L’aria è ancora fresca ma la temperatura è più mite. Si scende per una stradina asfaltata con una mezza dozzina di tornanti e poi si risale dalla parte opposta, oltre il campo ai piedi della collina, per qualche centinaio di metri.
Due Carabinieri in uniforme, tipo quelli che inseguivano Pinocchio nel libro di Collodi, stanno ai lati del leggio su cui sta la pergamena del 1159 – una copia – che attesta l’esistenza del Formadio.
Alle nove poco dopo inizia il convegno.

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L’abbazia di Marola e il Convegno

Conduce Gianni Milano, conduttore e presentatore in Rai e prima ci sono i saluti di Monsignor Lorenzo Ghizzoni, Vescovo Ausiliare di Reggio Emilia e Guastalla, poi di Nilde Montemerli, Presidente Comunità Montana Appennino Reggiano, e ancora Roberta Rivi, Assessore provinciale all’Agricoltura. Quando tocca a Davide Barchi, della Direzione Generale Agricoltura Regione Emilia-Romagna, chiudo gli occhi e sento la stessa voce di un giornalista sportivo della Rai e dopo qualche minuto riconosco il timbro di Italo Cucci. Per ultimo Giovanni Lombardini, Presidente della Società d’Agraria di Reggio Emilia.
Apre i veri lavori lo storico del Centro diocesano studi storici di Marola, Giuseppe Giovanelli, che parla di “Nascita e sviluppo dell’Abbazia di Marola”. Racconta dell’eremita Giovanni e della Selva che c’era qui e della storia che portò alla prosecuzione della guerra contro Enrico fino alla vittoria finale, sostenuta dal solo Giovanni contro il parere di tutti gli altri. Alla fine Matilde diede retta all’eremita e uscì vittoriosa. Così fu che tra il 1102 e il 1106 venne costruita l’Abbazia che diventò poi Eremo e infine Monastero. In allora l’eremita non era uno che pregava isolato dal resto del mondo, ma era uno che lottava per difendere i diritti dei poveri e combatteva contro le sopraffazioni e le prepotenze.
La Selva viene trasformata in castagneto e la vita si svolge nello stile dei monaci di Cluny, che era il monastero prediletto da Matilde. Oltre che coltivare granaglie i monaci allevavano bovini e suini e ne lavoravano i prodotti, a cominciare dal latte.
Dopo il periodo di Matilde il Monastero ebbe un periodo di decadenza nel 1300 e nel 1400 si trasforma da abbazia in convento. Nel 1800 – 1990 venne dedicato a Seminario fino al 1973 quando ha assunto l’aspetto attuale di centro di cultura.
Ora tocca all’ideatore di questo Convegno, Gabriele Arlotti, giornalista e coordinatore degli eventi per le celebrazioni degli 850 anni del formadio, spiegare come e perché è arrivato a questa giornata. Il titolo del suo intervento è infatti: “L’Abbazia e la pergamena di Marola: 13 aprile 1159, “formadio” tra Carpineti e Bibbiano, nella culla del Parmigiano Reggiano”. Tutto è cominciato con la ricerca delle pergamene storiche conservate nell’archivio storico di Modena. Il paese di Marola è al confine tra la cultura Longobarda e quella romano / bizantina. Il nome attuale del formaggio per antonomasia, Parmigiano Reggiano, nasce nel 1934. anticamente si parlava nei documenti di caseum parmesanus o in altri modi, come ad esempio la pergamena di Genova del 1264 che parla di parmesano o il Boccaccio nel 1348 di cacio che viene dal parmense.
Dopo Gabriele parla Giuseppe Alai, Presidente del Consorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano, che racconta come spesso gli capita in assemblee che coinvolgono produttori stranieri, che nessuno di essi creda che nel Parmigiano Reggiano non vi sono additivi di sorta, né tracce di conservanti e restano stupiti quando verificano che può stagionare anche più di due anni senza ammuffire, anzi migliorando le sue qualità gustative e organolettiche.
Segue un dotto intervento del linguista de l’Accademia della Crusca Angelo Stella, di Pavia, che racconta la sua emozione arrivando su queste strade che secoli fa percorsero prima il padre della lingua italiana, Dante Alighieri e poi Ludovico Ariosto. Esordisce poi dicendo che la parola formadio è una parola “sbagliata”. Occorre risalire molto indietro nel tempo, come spesso succede per molti vocaboli e possibilmente non cercare di italianizzare. Come dunque Ovem indica la pecora e non le uova, così formadio deriva da formaticum, vocabolo molto frequente nei documenti dell’Abbazia di San Colombano di Bobbio.
Il suffisso "aticum" richiama altre parole simili, come pedaticum, da cui pedaggio o tassa sul passaggio.
Dunque formaticum è riferito alla forma come struttura circolare e significa numero, mentre la sostanza è sempre caseum, cacio, dunque formaticum come caseum formaticum, o cacio formadio. Non è un caso che a sud dell’Appennino si trovi sempre caseum mentre a nord c’è il formaticum.
La trasformazione poi della finale –dio in –ggio si trova anche in altre parole come ho-die che diventa oggi, in ra-dium che diventa ra-ggio, e così via forma-dio diventa formaggio.
Il documento del 1159 riporta dunque la parola formadio, modo popolare per identificare il caseum, perché essendo un contratto tra proprietario di terreni e contadini, tutti quelli che dovevano firmarlo dovevano anche capirne il contenuto.
Siamo agli ultimi interventi e si alza dalla sua postazione al centro del tavolo dei relatori la figura imponente del Padre Abate Giustino Farnedi, che viene da Perugia, dove fa il Direttore dell'Archivio storico San Pietro. La sua dialettica è davvero piacevole e ci intrattiene sulle abbazie benedettine e lo sviluppo dell'alimentazione con interventi su necessità e bonifiche territoriali.
Inizia con una citazione in latino in onore di San Benedetto “pater et dux” dei primi monaci del suo ordine. Racconta la sua visita mattiniera all’Abbazie e di avere visto il sole che illuminava la navata con i suoi raggi. Non a caso oggi è il 21 marzo, equinozio di Primavera. Da oggi il sole ritorna verso l’equatore e le abbazie venivano sempre costruite nella direzione est – ovest avendo come punto di riferimento dell’asse proprio la direzione dei raggi del giorno dell’equinozio di Primavera.
Lui è di Cesena, ma ha passato un quarto di secolo nell’abbazia di Pomposa, poi è stato mandato a Roma e da quattro anni dirige l'Archivio storico San Pietro di Perugia. In Umbria l’abbazia aveva possedimenti per 3.200 ettari e oggi la sede della facoltà di Agraria.
San Benedetto fa le sue esperienze prima a Subiaco e poi a Montecassino, infatti c'è ben poco di lui a Norcia. Subiaco e Montecassino sono invece i due poli della riforma e del genio di questo monaco, cui si deve la vera nascita del monachesimo in Occidente. Benedetto insegna la preghiera, ma anche l'equilibrio tra contemplazione e azione, con la dedizione al prossimo nella carità e nella giustizia. Inoltre organizza la vita dei monaci in completa autonomia di sostentazione, in maniera che non debbano cercare nulla al di fuori del convento, dove c’è la chiesa per le sette preghiere della giornata. Quando per il lavoro nei campi occorre andare lontano allora aggiunge alla regola che chi è lontano può pregare inginocchiandosi semplicemente nel luogo in cui si trova, senza tornare alla chiesa del convento.
Ricorda poi che in questi territori si trova talvolta il termine grangia o grancia, che indica una frazione o un’azienda agricola. Il nome deriva da granica, luogo dove si conserva il grano. Allo stesso modo come casa deriva da casea, il luogo dove abita il casaro, quello che fa il caseum, il formaggio.
I monaci fanno voto di povertà, ma nel monastero hanno tutto e quindi con il passare del tempo il monastero diventa sempre più ricco perché ogni bene viene conservato e si eredita in loco da un Abate al successivo.
Nel medioevo si contavano oltre 400 abbazie benedettine. Prima di loro c’erano le abbazie cluniacensi, nate dopo quella di Cluny, nella Borgogna francese. Dopo il mille si afferma invece la regola di San Bernardo.
La prima preoccupazione dei monaci è però l’evangelizzazione e questo spiega le centinaia e migliaia di chiese sparse su tutta la penisola ma anche in Francia e comunque nei territori in cui i monaci sono vissuti più a lungo.
L’alimentazione nel monastero prevedeva grande uso di verdure ma per gli animali si facevano, mediante le marcite, anche otto tagli di foraggio ogni anno e quindi bovini e ovini e suini potevano essere allevati senza problemi. A pranzo si mangiavano verdure, pane, mele, pere, vino e acqua e frumentaria cotte – cereali, grano, orzo, avena, farro. Dagli ovini si ricavavano latte, lana, cacio e agnelli e dalle loro pelli si ricavava la cartapecora su cui scrivere.
Dopo il lungo intervento di padre Farnedi tocca a Gerard Beneyton che viene da Aosta ed è Presidente del Centro internazionale per la salvaguardia dei formaggi di montagna “Caseus Montanus”. Gerard parla un perfetto italiano ed esordisce con un bel proverbio inglese: “pane, formaggio e baci è la dieta dello scapolo”. Una volta l’agricoltura condizionava l’industria alimentare, oggi purtroppo succede spesso il contrario, talvolta a scapito della genuinità e della qualità. Per fortuna le Olimpiadi del formaggio di montagna e il concorso Le grolle d’oro hanno contribuito a stimolare il miglioramento della qualità agendo su tutta la filiera del formaggio, compresa la commercializzazione.
La dieta dei nostri nonni è stata per lunghi inverni polenta e formaggio. Da loro abbiamo imparato a lavorare e ad amare la terra e i suoi prodotti.
Nel frattempo si sta per arrivare alla premiazione finale. All’organo il maestro Borgonovi accenna l’avvio di musiche sacre e viene consegnata una copia redatta a mano della pergamena storica del 1159 al Comune di Bibbiano nella persona dell’assessore al Parmigiano Reggiano, Umberto Beltrami, visibilmente emozionato.
Dopo la premiazione ancora un intervento di Cesare Corradini, Delegato dell’Accademia italiana della Cucina, di Reggio Emilia, che parla di Scienza, tecnologia e fattori di tipicità nella storia del “formadio”. Il formaggio è nato per caso, grazie alla coagulazione spontanea del latte. Solo in seguito si è capito l’uso del caglio, che veniva estratto dallo stomaco degli animali. La nostra preoccupazione deve essere quella di difendere la tipicità come cultura e tradizione.
Ancora un breve intervento di Roberto Rubino, Ricercatore del Consiglio delle Ricerche in Agricoltura,
un campano dal cognome genovese trapiantato a Potenza dove dirige la rivista Caseus. I Romani usavano soprattutto latte di pecora per i formaggi e avevano pochi bovini. In tutto il sud la transumanza ha pesato molto sull’economia casearia e alimentare in generale, ma purtroppo al sud non esiste una sola scuola casearia.
Infine per le conclusioni si avvicina al microfono il direttore del Consorzio del formaggio Parmigiano Reggiano, Leo Bertozzi. Il Consorzio si impegna a fare avere il giusto riconoscimento economico ai produttori. San Martino, Sant’Antonio e San Lucio, protettore dei casari sono i punti di riferimento.
Gianni Milano ricorda che il 13 aprile a Bibbiano ci sarà il vero anniversario del Formadio con varie cerimonie per tutto il paese.
Infine un saluto del Presidente della provincia di Mantova Maurizio Fontanili che si dice preoccupato per la perdita di posizione dell’Italia nel turismo che è passata dal primo al quarto posto in Europa.

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