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Viaggi enogastronomici

Gli eroi d'Abruzzo e la Panarda

di Luigi Bellucci

MappaArticolo georeferenziato

Un'accoglienza signorile quella del Press Tour "A tavola con l'Abruzzo", organizzato da Claudio Ucci di B2B Abruzzo e dai suoi ragazzi e ragazze, dal 21 al 25 Maggio 2008. Si comincia con una bella cena di benvenuto, poi visite al villaggio che ospiterà i giochi del Mediterraneo 2009, all'eremo di San Bartolomeo in Legio a Roccamorice, al castello di Salle, al Santuario del Volto Santo di Manoppello, ai paesi degli altipiani maggiori d'Abruzzo con Pescocostanzo, Rivisondoli, Rocca Pia, Roccaraso, il Castello di Elice e la sua pasta alla Mugnaia. Ancora visite a musei e laboratori di grande artigianato come quello orafo Italo Lupo a Bolognano, o la scuola di cucina Abruzzo Cibus a Carunchio (con pranzo preparato dagli allievi della scuola), e ancora il museo dell'arte contadina a Picciano. Infine visite e degustazioni dai produttori, a cominciare dall'Azienda Zaccagnini, l'azienda vinicola Bosco Nestore a Nocciano. Infine grandi le cene, quella di pesce al Porto Turistico Marina di Pescara, quella con i prodotti degli altipiani maggiori d'Abruzzo, ma grandissima quella conclusiva, la Panarda, un rito di consumo collettivo del cibo, ancora vivo e celebrato con tinte quasi magico sacrali a Villavallelonga. Il ristorante La Lanterna di Villanova di Cepagatti è il luogo, in Abruzzo dove Sono sopravvissuto alla Panarda.


Mercoledì 21 Maggio 2008
Arrivo a Pescara e cena

Il viaggio da Genova a Pescara è lungo. Mi fermo per il pranzo a Fano. Mi hanno detto che i pescatori hanno aperto un ristorante self service dove si mangia "Pesce azzurro" (questo è anche il nome del locale). Il servizio è da mensa però il pesce è fresco e cucinato in almeno sei modi diversi. Le acciughe e gli sgombri la fanno da padrone. Buone anche le olive ascolane ripiene di pesce e splendide le "poveracce" con il loro sughetto con il gusto di aglio e prezzemolo tritato Alla fine si beve la Morèta, un caffé corretto con anice, rum e scorza d'arancia, già zuccherato. Con la giornata fresca e piovosa di oggi è quello che ci vuole per affogare il pesce nello stomaco.

Arrivo al Carlton, un quattro stelle rimesso a nuovo, accogliente e "incartato" come un'opera di Javacheff Christo, quello che amava impacchettare i grandi monumenti, perché gli stanno rifacendo il maquillage esterno. Al primo passaggio non lo vedo e dopo un chilometro mi dicono di tornare indietro e allora lo vedo.
Dalla camera al quarto piano si vedrebbe il mare, ma qualcosa si intravede lo stesso perché i teli sono bianchi e semitrasparenti e le sagome rimangono ben delineate. È come vedere un paesaggio dipinto ad acquerello.
Alle 20.30 si cena al ristorante Leon d'Oro dell'Hotel Plaza, della catena Best Western, qui vicino. Lo conduce Enzo Maiorano con una agguerrita equipe di collaboratori e collaboratrici. È al primo piano dell'Hotel, proprio a fianco della chiesa del Sacro Cuore. Ambiente elegante, belle luci, tavoli rotondi, tovaglie beige e bianche danno un tocco di pulizia e ordine che fa piacere, quando si viene qui per una cena in compagnia.

Siamo una trentina di operatori della comunicazione, equamente distribuiti tra italiani e stranieri. Si comincia con un piatto coraggioso, uno Scapece di pesce azzurro fritto, con alici, sgombri, merluzzi, e poi messo in aceto bianco leggero e zafferano. Difficile trovare il vino giusto, ma questo Coste delle Plaie, Trebbiano d'Abruzzo DOC 2007 di 13 gradi, affinato sulle bucce, del Podere Castorani di Jarno Trulli da Alanno, ci sta proprio bene. Ha il colore giallo verde dei bianchi di stoffa, un naso pulito con note minerali e floreali e in bocca ha giusta acidità, è sapido e di buon corpo e armonia, così da competere ad armi pari con il sapore non aggressivo dello Scapece.

Il primo è un piatto di sagne o sagnette ai frutti di mare con cannellini e sedano, un tipico piatto abruzzese, come il precedente e come i successivi di questa serata. Lo accompagna un Editto delle Tenute Vinicole Rabasco di Pianella, curato dall'enologo Anselmo Paternoster. È un Montepulciano d'Abruzzo Cerasuolo DOC 2007di 12,5 gradi dal lotto L08/85. Il colore rubino chiaro è perfetto per questo rosato, al naso è vinoso e leggermente speziato, di grande pulizia. In bocca è sapido, armonico e collabora con il sapore delicato ma evidente dei pesci e delle verdure ben amalgamati con la pasta cotta alla perfezione. Resta in tavola anche per il piatto successivo, gli spiedini di pescatrice al lardo aquilano con patate novelle al forno e funghi porcini.

Stavolta però si trova un po' in difficoltà. Ma ci rifaremo ampiamente col vino da dolce. Il dolce è un semifreddo al parrozzo rivisitato, su un velo di cioccolata liquida e una spruzzata di petali di mandorla. Lo accompagna un Plaisir Passito bianco Colline Pescaresi IGT 2006 di 13 gradi, in bottiglia da 50 cl., di Ciccio Zaccagnini da Bolognano, un grande. Il colore è un ambrato pieno, con riflessi dorati e sprazzi di luce. Al naso la pulizia è encomiabile e la mela verde emerge prepotente sugli altri aromi secondari di miele di gelsomino e lievissimo fungo. In bocca è di estremo equilibrio, con un residuo zuccherino appena percettibile e un retrogusto sul leggero amaro che ricorda il miele di castagno.

Durante la cena Claudio Ucci, della CCIAA di Pescara, responsabile dell'organizzazione del Tour 2008, ci fa una veloce panoramica di ciò che vedremo e degusteremo in questi giorni. E ci spiega anche la filosofia che c'è dietro alla scelta delle opportunità che l'Abruzzo può offrire. Si vogliono far conoscere i cibi meno rinomati, come quelli che abbiamo assaggiato stasera, come quelli che avremo modo ci conoscere nella visita a Bolognano, dove non esiste un ristorante e assaggeremo piatti preparati dalle donne del paese e avremo piacevoli sorprese. Scopriremo le cantine Zaccagnini che fanno vino ma anche arte. Scopriremo il laboratorio orafo dove si vuole che il turista possa preparare lui stesso i suoi gioielli. Vedremo una scuola di cucina con chef italiani e americani. Andremo a conoscere i posti più nascosti dell'entroterra e della costa, l'altopiano con i 180 chilometri di piste e la costa dei trabocchi e le rocce sul mare.

Infine vedremo i segreti dei musei dell'arte contadina, vedremo e conosceremo i maccheroni alla molinara o alla mugnaia di Elice, e ci saranno svelati i misteri e il fascino delle 56 portate della panarda 2008, che sarà una panarda itinerante pomeridiana e non notturna. Inizieremo in cantina con un pane olio e vino che devono essere di buon auspicio per il resto della festa. Sì perché la panarda è una festa con i suoi riti per sedersi e per alzarsi da tavola, condotta e governata dal maestro di panarda. Le portate saranno preparate e servite da tre cuochi famosi, ciascuno a rappresentare una diversa cucina abruzzese, teramana, pescarese, teatina. Per stasera non ci resta che augurarci "Ad maiora" e riprendere la strada del Carlton parlando di mode, di tailleur e di alzate mattutine precoci.


Giovedì 22 Maggio 2008
Il villaggio dei giochi del Mediterraneo 2009

La sveglia è alle 7 per vederci, dopo colazione, alle 8,29 davanti alla piazza della stazione per salire sul pullman che ha un programma molto fitto da rispettare. Inrealtà poi si parte che sono quasi le nove. In pullman da 50 posti arriviamo a Chieti e di qui giriamo verso il villaggio Mediterraneo. È un complesso residenziale ancora in costruzione e, ci spiega Gianni Di Cosmo, il Presidente, ospiterà dal giugno al luglio 2009 gli atleti e il comitato organizzatore dei16° Giochi del Mediterraneo che si terranno proprio qui a Pescara. Poi diventerà quartiere cittadino con 450 appartamenti, uffici, un ristorante da 150 posti e un villaggio universitario con oltre 300 appartamenti. L'area copre 18 ettari, di cui sei a verde. Il costo dell'area è stato di 21 milioni di Euro e l'investimento complessivo è di 95 miliardi, di cui il 35% destinati ai 450 appartamenti e il 65% alle altre strutture. Non vi sono partecipazioni pubbliche, ma è tutto investimento privato.

Appare strano che nel clima di incidenti sul lavoro e morti di cui da mesi i giornali parlano qui dei 400 e oltre operai che si vedono sui ponteggi e nelle altre zone nessuno porti il casco protettivo. Evidentemente non vi sono controlli. Notiamo in particolare una decina di operai impegnati con un prefabbricato da installare su un ripiano al quarto livello di una casa in costruzione che fanno segnali con le mani all'operatore della gru mentre il pezzo scende sulle loro teste nude e loro lo portano in posizione a mano. Ci allontaniamo stupefatti e proseguiamo in direzione dell'eremo di San Bartolomeo in Legio.

Durante il viaggio che dura circa un'ora, Vanessa, la nostra guida bionda bilingue, che alterna italiano e inglese con estrema naturalezza, ci racconta di Celestino V, alias Pietro da Morrone, della sua vita avventurosa, della basilica di Collemaggio e dei templari, della Porta Santa che si apre e si chiude tutti gli anni, del suo gran rifiuto e della sua morte sembra cruenta per il foro trovato nel suo cranio alla riapertura della tomba. Sembra quasi una lunga storia a fumetti nel racconto di Vanessa.

Si sale verso Roccamorice, dove sta l'eremo, tra vigne quasi abbandonate, parte incolte, boschetti, piante, piccoli ciuffi di ginestra, l'orrido sul Vera con il ponte che prosegue sulla strada scavata nella roccia, come quelle della Val d'Ega. Arriviamo a Roccamorice. Anche qui un piccolo cantiere edile con una decina di operai. Ci faccio caso, dopo il villaggio Mediterraneo. Questi qui hanno tutti l'elmetto regolamentare in testa mentre lavorano e qui i pericoli sono ben minori che nell'altro grande cantiere di stamattina. Evidentemente i controlli qui funzionano. Gli ultimi due cartelli stradali consumati dal tempo dicono Santo Spirito e Fonte Tettone e più su, quasi all'arrivo anche Block Haus, ma noi prendiamo la direzione degli altri due.

Arriviamo poco dopo nella zona dove si trova l'eremo. Sono quasi le undici e dobbiamo incamminarci lungo un sentiero che porta in un'ampia vallata da dove poi si scende, sì proprio così, per arrivare all'eremo, che non si trova in cima a un monte come si crede generalmente, ma stavolta in una gola di un fiume ora ormai asciutto, sul fianco della valle scavata dal fiume nei secoli.

Dopo alcuni tentativi a vuoto tra i sentieri dell'altopiano troviamo finalmente il sentiero giusto e il gruppo sfilacciato che sembra uscito da uno dei tanti formicai che riempiono il terreno, si avvia verso il luogo sacro.
Tutto va bene fino a che il sentiero si restringe a diventare una stretta pietraia che prima avanza in piano tra prati colorati di fiori di tutti i colori con montagne lievi attorno, e poi comincia a discende verso il basso tra pendii sempre più ripidi e in percorsi a biscia. Alcuni si spaventano pensando di scivolare, altri non se la sentono di proseguire per paura del ritorno, così la fila si assottiglia e si allunga.

Dopo la discesa ripida ancora un centinaio di metri quasi in piano, poi una trentina di scalini nella terra di altezza diversa, ancora ripidi e infine l'ultima discesa tra scalini di pietra e buchi nella roccia non più alti di un metro e sessanta - settanta. Ecco apparire la porta della stanza ora adibita a luogo di preghiera e di ritrovo di gruppi scout o appassionati di alpinismo. La porta è accostata ma basta spingerla che si apre. Al di là della prima stanza ne appare un'altra, più piccola. Lunghi solchi sul pavimento di pietra testimoniano lo scolare di acque che scendono dalla roccia interna nei momenti di forti piogge o di umidità formata dalle nuvole che possono arrivare a queste quote.

Non tutti hanno avuto la forza di arrivare all'eremo. La discesa tra le pietre del sentiero e per gli scalini scavati nella roccia, di dimensioni e altezze e larghezze diverse sarebbe stata troppo faticosa. Chi ha auto al costanza di proseguire, con l'attenzione dovuta al luogo, è stato ampiamente ripagato dalla bellezza della natura, dalla sacralità di quelle rocce, dai profumi dei fiori che crescono spontaneamente sulle pareti del declivio.

Il ritorno è altrettanto faticoso. I piedi devono scartare le pietre più grosse e gli occhi sono attirati dai mucchietti di terra che sembrano piccoli vulcani, con il buco al centro, sparsi qua e là per l sentiero. Sono piccoli e grandi formicai. Se ne urti qualcuno con la punta della scarpa vedi un pullulare di corpicini neri e bianchi che si muovono freneticamente per tornare a nascondersi e ricreare il loro ambiente.
All'arrivo sull'aia del ristorante che sta all'inizio del sentiero molti abbiamo il fiatone. Si cerca una fontanella d'acqua a cui dissetarsi e poi si risale sul pullman per la tappa successiva.


Il castello di Salle

Si parte per il castello di Salle, un bastione rimesso a nuovo, di origine longobarda. Sul muro esterno del castello appare lo stemma con i due leoni rampanti della famiglia Di Genova, stemma che riapparirà in varie forma anche all'interno del castello,dove si distingue bene il motto del casato: "Volo atque valeo", traducibile, più o meno liberamente, in un "Volere è potere".

Entro il mese di giugno sarà inaugurato il ristorante all'interno del castello. Ci racconta Fabrizio Mechi, co-proprietario del castello insieme al Barone Di Genova, che manca ancora un foglio da parte dell'amministrazione ma presto la regione avrà un ristorante in più, di una quarantina di posti, che non farà una cucina come gli altri della zona, ma proporrà una cucina storica medievale, ricavata da ricette antiche, con la consulenza di personaggi noti della provincia, dell'Accademia araldico storica abruzzese, esperti di costumi e storia antichi.

Dal cortile del castello oltre le mura esterne si ammira Salle sulla sinistra e Caramanico Terme sulla destra, in lontananza, sotto alla Maiella innevata e col cappello di nubi. All'interno il castello ha qualche cimelio storico di un certo valore, oltre a mobili seicento e settecento, di stile neogotico, in una stanza c'è un letto a baldacchino in cui ha dormito Napoleone Bonaparte quando era transitato all'Accademia Militare di Torino. È proprio di lì che viene il letto. Per una scala interna saliamo al terrazzo sopra al castello dove sono già posizionati due tendoni che ripareranno dal sole gli ospiti del ristorante che vorranno pranzare all'esterno.

Infine rientriamo all'interno, nella sala dove lo stesso Barone Di Genova con la sua famiglia ci accoglie per offrire un aperitivo a base di vini della casa e stuzzichini vari. Le etichette riportano Baronia di Salle e nelle bottiglie c'è un Montepulciano d'Abruzzo 2006 e un più maturo 2003, e ancora un bianco, Pecorino d'Abruzzo 2007. Il tempo stringe e si deve ripartire, di corsa, in direzione di Musèllaro di Bolognano, dove è stato preparato il pranzo dalle mani delle massaie del posto per darci modo di assaggiare veri e genuini piatti poveri d'Abruzzo, di un sapore antico e introvabile altrove.


Il pranzo a La Crus

Il ristorante sta sulla piazza del S.S. Crocifisso e prende il nome grazie a un omaggio a un gruppo musicale milanese. Il proprietario del ristorante, Francesco Marcone, mi fa notare come Crus, con la s finale, sia la dizione milanese del termine croce (se fosse spagnolo sarebbe Cruz, con la zeta). La piazza vista dal ristorante è un gioiellino, tanto è ordinata e precisa nei particolari. Il pranzo di oggi è su una lunga tavola a I maiuscola. Si comincia con antipasti tipicamente abruzzesi, frittata con le tolle dell'aglio, le tolle sono i germogli, poi le crispelle con i cacigni, erbe selvatiche un po' amarognole, a seguire la cipollata, una zuppa densa, di cipolle cotte in padella e formaggio, e la zuppa di fave e la ricotta fresca di pecora.

Il vino per tutto il pranzo è un più che decoroso Montepulciano d'Abruzzo rosso, dal buon sapore vinoso, tipico vino della casa ma ben fatto e di pronta beva. Il primo sono le plangozze, specie di lasagne di pasta fresca un po' più alta delle tagliatelle, condita con pomodoro fresco e carne di castrato. Poi il ciuf ciaf, un piatto di carne di maiale e pancetta con un contorno di ciabbotto, una sorta di peperonata e le patate al coppo, cotte sotto la brace e condite con il saporito olio di Lupone. Infine le pizzelle con la marmellata di casa, sorta di ostie fatte con lo stampo a mo' di dischi di pane ricamati e barocchi.

Nelle crespelle con i cacigni e nella zuppa di fave ho ritrovato il sapore antico delle cucine campagnole, quelle vere, che nei ristoranti non si trovano più e che è meraviglioso quando puoi ritrovare. Ma anche gli altri piatti, semplici nella loro preparazione e presentazione, erano meravigliosi perché contenevano il tempo e l'amore delle mani delle cuoche del territorio. Nelle patate al coppo ho aggiunto un velo di olio extravergine di oliva del Podere Lupone, un olio DOP Aprutino Pescarese dell'azienda agricola Carmelina Sonsini Lupone di Tocco da Casauria, raccolto nell'ottobre 2007 e scadenza 20 giugno 2009. un olio tendenzialmente dolce, con un naso fruttato maturo dai sentori di foglia di pomodoro e carciofo, con note di salvia. In bocca un velo leggero di amaro e piccante.

Alla fine del pranzo la sindaco di Musèllaro di Bolognano ringrazia per la visita alla comunità e al territorio. Qui vedremo il laboratorio orafo di Lupo e la cantina di Zaccagnini e qui è presente il signor Lupone che produce un olio DOP di ottima qualità. Altre belle realtà di restauro e la cucina del territorio sono state qui oggi rappresentate. Il Signor Lupone illustra la DOP Aprutino Pescarese e le caratteristiche dell'olio che ne deriva, con le cultivar Dritta e Toccolana caratteristiche e autoctone. Ancora due parole sulle caratteristiche del territorio da parte di una guida del paese che ci racconta le meraviglie paesaggistiche e non di questi luoghi.

Scendiamo di pochi chilometri da Musèllaro verso Bolognano. Lungo il viale alberato principale c'è un anonimo negozietto, visto da fuori. Avvicinandosi alla vetrina si comincia a fare una sosta per osservare da vicino i gioielli esposti oltre il vetro. Sono oggetti in filigrana d'oro e d'argento, con figurine smaltate di tutti i colori, spille, collane, orecchini.

Guardando poi attentamente all'interno ecco in fondo al negozio i banconi da lavoro, dove due o tre figure scure stanno operando attorno a macchinari particolari e con la mano precisa e piccoli attrezzi trasformano pezzi di metallo in elementi decorativi di grande valore. Italo Lupo ha cominciato a lavorare l'oro da giovane. Ha imparato a trattare la materia con arte antica e pian piano, riproducendo gioielli per case famose, ha tirato fuori dal cilindro i suoi ornamenti preziosi. Ha iniziato a disegnare gioielli per diversi orafi, poi gli è piaciuto e ha cominciato a lavorare per sé approfondendo la tecnica di esecuzione del gioiello, per imparare a dominare la materia dura dei metalli e delle pietre.

Le sue idee che derivano dall'osservazione del mondo e delle mode si trasformano dunque in oggetti decorativi sempre nuovi e spesso coinvolge anche il cliente in questa realizzazione di opere uniche o di piccolissima serie. Per restare nella tradizione abruzzese sono sue le rivisitazioni di gioielli come la Presentosa, la Pescarina e il Cuore d'Abruzzo, gioielli che egli stesso e i suoi laboratori confezionano in una scatola realizzata con pietra della Maiella, per rendere ancora più evidente questa essenza abruzzese che li contraddistingue.

La Presentosa prende il nome dal dono, il presente e così la battezzò Gabriele D'Annunzio nel Trionfo della Morte del 1894. Un tempo veniva regalato alle giovani come promessa d'amore. Quella di Lupo ha la forma di una stella, con uno o due cuori uniti al centro e contornata di filigrana lavorata a spirali. Il filo è fatto con due fili d'oro e d'argento avvolti a treccia, poi ritorti e schiacciati. Mentre la Presentosa risale al 1600 nella tradizione popolare montana abruzzese e meridionale in generale, la Pescarina è invece un'invenzione dello stesso Lupo, che con questo gioiello ha voluto ricordare la parte marina dell'Abruzzo e si è rifatto alla stella marina nella forma del gioiello, creando così una specie di Presentosa del mare.

Il ciondolo a forma di cuore ricorda invece quelli che i transumanti, quando partivano per i loro viaggi invernali verso le pianure della Puglia, si portavano nel taschino del corpetto. All'interno del ciondolo mettevano una ciocca di capelli della loro donna, per averla sia nei pensieri ma anche fisicamente, sempre vicina. Anche la donna, a casa, ne conservava uno con dentro una ciocca di capelli del suo uomo, così restavano ancorati l'un l'altro per tutto l'inverno, fino alla stagione successiva.

Mentre le signore si attardano ad ammirare i lavoranti che portano avanti i loro gioielli, sulla porta del laboratorio appare un paniere colmo di saporitissime fragole, da cui prendo un assaggio gustoso e rinfrescante. Esco nell'aria fresca del pomeriggio passeggiando tra i platani del viale in leggera discesa e scartando il marciapiede alzato dalle radici che qua e là affiorano dalla terra nera.
È ora di ripartire per la prossima visita, dove si mescola il vino con l'arte a farne un tutt'uno.


Azienda Zaccagnini

Arriviamo in azienda che è un pullulare di maestranze e operai sia nelle cantine ma soprattutto nelle aree esterne, in preparazione delle Cantine aperte di sabato e domenica. Si sta preparando un piazzale circolare dove canterà il figlio di Ivan Graziani, il cantautore morto alla fine del secolo scorso ancora giovane e che ha voluto lasciare le sue ceneri in terra marchigiana, a Novafeltria, a due passi da San Leo, nel Montefeltro. Si prevede un afflusso di qualche migliaio di visitatori e appassionati di musica e di arte.

Proprio così perché l'azienda di Ciccio Zaccagnini sembra più un museo di arte moderna, sia all'interno delle cantine, sia all'esterno. Dovunque ti giri, a partire dal cortile davanti alla casa sulla collina fino ai campi e ai vigneti, è un continuo susseguirsi di opere d'arte moderna, lasciate nel tempo, a partire dal novembre 1984, da famosi artisti invitati a dipingere magari una tela o a fare una scultura che poi diventavano un'etichetta per il vino appena vendemmiato o che sarebbe uscito l'anno successivo.

Ci accompagna nella visita l'enologo, Concezio Marulli, che oltre alle opere e al loro significato, ci mostra la barricaia per prima, dove fa mostra di sé una grande scultura di Cascella, che rappresenta un tavolo sacrificale dell'Odissea, poi la vinaia dove fermenta e invecchia il San Clemente rosso e dove appare tutta accucciata e raccolta in sé la Colomba spaziale (perché ha toccato il suolo lunare e poi è stata riportata sulla terra, come ci dice Concezio) di Pietro Cascella, poi il tunnel dove in caratelli di 50 litri si affina e invecchia per tre anni il Clematis un passito rosso di Montepulciano d'Abruzzo prima di essere imbottigliato e rimanere ancora un anno in bottiglia prima della vendita, poi la cantina delle botti grosse dove si affina il Montepulciano d'Abruzzo delle annate migliori e dove sta la fila delle bottiglie che vogliono uscire dall'anonimato e poi il mosaico "Vita nella Vite".

Dal terrazzo del primo piano si ha una visione rilassante della valle Casauria con sullo sfondo le case di Tocco Casauria in lontananza e in primo piano, in mezzo alle vigne, il pulcino giallo a strisce rosse che darà il nome al vino che uscirà da quella vigna, che diventerà il "Montepulcino".
Rientriamo per degustare insieme e brindare un bianco Aster (è il nome di un fiore) da due magnum aperte per noi. È uno spumante metodo Charmat da un uvaggio di Riesling al 40%, Chardonnay al 40% e Trebbiano d'Abruzzo al 20%, dalle bollicine molto fitte e finissime, con un sentore fruttato e buona sapidità in bocca e un retrogusto finale di mandorla verde. È una della ventina di etichette che produce l'Azienda, che ha circa 120 ettari vitati e produce circa un milione di bottiglie.

Il tempo è tiranno oggi e non si riesce a passare a vedere l'abbazia di San Clemente a Casauria, ma Vanessa, la nostra guida bionda dai capelli lunghi e gli occhi azzurri, come la fata turchina di Pinocchio, ce ne racconta la storia per sommi capi. L'abbazia fu fondata da Ludovico secondo alla fine del nono secolo, nell'871, dopo un voto che aveva fatto, lungo la strada Claudia Valeria. La dedicò inizialmente alla Santissima Trinità. Poi, con la morte del Papa Clemente e il trasferimento qui del suo corpo, prese il nome attuale. L'abbazia subì distruzioni e ricostruzioni multiple nel corso dei secoli, per invasioni e per terremoti. Al suo interno è custodita una copia del Chronicon Casauriensis, un volume di oltre 270 fogli scritti fronte - retro, che narra le vicende dell'Abbazia di S. Clemente e riporta il cartulario dei diplomi e dei benefici ad essa pertinenti.

L'originale fu prelevato da Carlo VIII che nel 1494 lo sottrasse alla Biblioteca napoletana dei re aragonesi e lo condusse con sé in Francia, dove è tuttora conservato alla Biblioteca Nazionale di Parigi. L'originale era stato composto tra il 1150 e il 1190 dal monaco amanuense Giovanni di Berardo e dal monaco miniatore Maestro Rustico. Intanto si va al Santuario di Manoppello, la chiesa dei Cappuccini, dove sta il "Volto Santo".

La chiesa da fuori ha un aspetto semplice e moderno. All'interno, forse per la tranquillità del luogo, il tempo fresco e pulito, l'assenza di fedeli in preghiera o in visita, ho l'impressione di un luogo molto particolare. La faccia di padre Carmine che ci accoglie e ci da il benvenuto senza parlare, con il solo sguardo pulito e sereno dei veri discepoli di Cristo è una conferma di questo clima magico e di luce che ci sentiamo dentro. A poco a poco una trentina di persone sono scese dal pullman, sono entrate, si sono guardate in giro e sono andate decise verso la scala dietro all'altare che porta ad un pianerottolo da cui si può ammirare questa veronica (vera icona) che è anche una reliquia tramandata dai secoli passati e una Acheropita (non dipinta da mano umana).

Ciascuno di noi mantiene i suoi pensieri profondi mentre si fanno fotografie o si guarda semplicemente. A poco a poco il gruppo scende dalla scala e si va a sedere nelle prime panche della chiesa, davanti all'altare e Padre Carmine si avvicina al microfono e comincia a raccontare il miracolo di questa immagine. È appurato che non contiene segni di colore né di pittura di nessun tipo. La tela è fatta di bisso marino intrecciato a mano e negli ultimi anni è stata studiata a fondo, confermando ogni volta le caratteristiche religiose e le dicerie della tradizione.

Dopo avere parlato della diversa espressione del Volto Santo a seconda del tipo di illuminazione, da volto sereno a volto sofferente e tumefatto dalle ferite e dai gonfiori dei colpi ricevuti dal viso della persona che ne ha lasciato l'immagine, ci dimostra direttamente il fenomeno. Sale lui ora le scale dietro all'altare e accende le luci laterali che illuminano il telo di bisso con impresso questo volto ora sofferente ora sereno. Noi siamo disposti attorno all'altare, parte dietro, parte davanti, perché il volto è visibile nei due casi. A poco a poco il gruppo si scioglie, si comincia ad uscire alla spicciolata finché non siamo tutti risaliti sul pullman.

Apparentemente è tutto come prima, è solo passata una mezz'oretta. In realtà io sono convinto che ciascuno di noi che ha visto quel volto e quell'espressione sente qualcosa di diverso dentro di sé, sì forse anche per noi … qualcosa è cambiato in questo tardo pomeriggio di primavera abruzzese.

Si ritorna sulla strada e in lontananza, verso il mare, un nuvolone nero sta svuotando il suo contenuto di pioggia sulla costa lontana e il sole che sta per tramontare scende lentamente verso il basso finché non appare sotto le nubi e illumina da sotto le nuvole che stanno pian piano diradandosi lasciando squarci di luce tra azzurro e rosa come ampie pennellate nel cielo, dove sta per apparire un abbozzo di arcobaleno di colori.


La cena di pesce al Porto Turistico Marina di Pescara

La giornata è stata proprio piena e siamo in ritardo quasi di un paio d'ore rispetto alla tabella di marcia. Si rientra in albergo per un quarto d'ora. Il tempo di sciacquarsi almeno la faccia, cambiarsi e poi di nuovo nella hall. Ci aspetta il pullman per andare a prendere il gruppo del Plaza e poi tutti assieme al Porto al ristorante Franco.

Parte di noi decide di saltare la cena visto il pranzo finito tardi e quindi la saturazione da cibo. Arriviamo al ristorante poco dopo le nove di sera, con il piazzale ancora bagnato dall'acquazzone pomeridiano che ha preferito la costa all'entroterra, per nostra fortuna. La sala grande è piena di clienti e per noi due tavole lunghe nella sala piccola. Bella compagnia e bella conversazione. Si prepara il rito della panarda, almeno a parole.

Si comincia con un po' di antipasti, acciughe diliscate impanate e fritte su letto di insalata, muscoli ripieni, pallotte cacio e ova con un bagno nel pomodoro fresco, frittelline di baccalà, che sembrano cuculli usciti da una friggitoria genovese. Si beve un vino bianco Trebbiano d'Abruzzo DOC 2007 di 12 gradi, dell'Azienda Agricola Camillo Montori di Controguerra nel teramano, sapido e fresco, forse un filino troppo solforoso, che accompagnerà la cena fino alla fine. Continuiamo con mezzi rigatoni ai frutti di mare al pomodoro e poi una bella grigliata mista con gamberoni, spiedini e pesce rombo e vassoi di insalata fresca già condita.
Per finire sorbetto al limone o tiramisù.

La cena è giusta per quantità ma il servizio è un po' troppo lento, forse per mancanza di personale vista la completezza del locale. Carino il luogo con ampi spazi interni ed esterni per poter chiacchierare o uscire a fumare per chi lo desidera. La serata passa lentamente e si torna in albergo che è quasi l'una.


Venerdì 23 Maggio 2008
Verso Carunchio per Trabocchi e trabocchetti

Partiamo ancora alle nove verso sud. Arriveremo al confine con il Molise, destinazione Carunchio. Prendiamo l'autostrada, ma verso Ortona usciamo e seguiamo la statale per vedere i trabocchi pronti con le loro reti sulla costa per la pesca. Alcuni trabocchi sono attrezzati con un piccolo ristorante per fare cene, che culminano in piccole feste del "Cala lenta" nel mese di luglio per coinvolgere i turisti a conoscere i produttori locali di cose buone da aggiungere alla fucinatura dei pesci appena pescati.

Subito dopo San Vito, vicino al campeggio della vecchia Fornace, ci fermiamo lungo la statale per fare fotografie al trabocco lì vicino, oltre la ghiaia della spiaggia alta e agli altri tre che si vedono in lontananza. I colori del mare e del cielo sono pastelli stamattina, ma la ghiaia grossa e gli scalini di cemento alti sono insidiosi. Una tour operator canadese scivola maldestra sulla ghiaia mentre scende lo scalino troppo alto e posa male il piede cadendo di peso sui sassi e sotto una apparentemente innocua sbucciatura della pelle arrossata, proprio sotto la rotula, probabilmente si cela la rottura di un osso della gamba destra perché non riesce più ad alzarsi e le fa mal tutta la gamba sotto il ginocchio se tenta di stare in piedi. Così si deve chiamare un'ambulanza per poterla soccorrere. Le tengono compagnia Sebastian, l'italo canadese, e Viviana, che, con uno sguardo mortificato, ci saluta dalla strada con la mano mentre il resto del gruppo riparte verso il prossimo casello autostradale.

Nel frattempo Vanessa, anche oggi professionale e precisa, ci racconta della transumanza, in questa giornata dedicata all'economia dell'Abruzzo, mentre ieri era stata dedicata agli aspetti religiosi del territorio.
La transumanza era lo spostamento delle greggi di pecore e cani pastore abruzzesi, bianchi di pelo con le orecchie basse, e altri animali, come muli, mucche e maiali dalle montagne dell'alto Abruzzo fino al Tavoliere delle Puglie. Il percorso era segnato dal tratturo, una striscia di terra di oltre 100 metri nei punti più ampi, come il tratturo magno che andava dall'Aquila fino a Pescara e di qui poi si proseguiva lungo la costa a mezza collina fino al Tavoliere. Le pecore erano organizzate in "morre". Una morra contava 350 pecore e ogni pastore si muoveva in una decina di morre.

La transumanza vedeva lo spostamento di decine di pastori che si muovevano a gruppi. In una stagione si spostavano oltre tre milioni di capi di bestiame. La partenza avveniva verso ottobre e il ritorno sulle montagne aquilane non prima di giugno. Lo spostamento da una regione all'altra durava circa un mese. Questi greggi producevano ricchezza nella regione, con la lana, il latte, le stoffe colorate e ogni altra forma di economia che da queste derivava, come i pizzi, i merletti, i tomboli.

Vanessa racconta dei costumi delle donne abruzzesi, della crocchia (i capelli raccolti sul capo, con i quali portavano i pesi, per cui si diceva che avessero il collo corto, racconta dei balli che facevano davanti al forno del paese aspettando la cottura del pane sulla piazza del ballo, come spesso si chiamava il luogo davanti al forno. Zafferano, farro, salumi, dolci, formaggi e altre prelibatezze della regione sono altri argomenti che riempiono il viaggio verso il sud abruzzese.

Intanto che Vanessa racconta abbiamo ripreso l'autostrada verso Sud e usciamo alla stazione di Montenero di Bisaccia, Vasto Sud, San Salvo. Risaliamo la statale 650 in direzione Isernia, lungo il confine tra Abruzzo e Molise e a un certo punto un mucchio di case si presenta davanti a noi a un paio di chilometri di distanza, sopra un cucuzzolo. Siamo a Carunchio. Scendiamo dal bus per fare foto panoramiche del paese da media distanza. Poi risaliamo fino alla piazza grande dove ci aspettano due pulmini più piccoli che a gruppi ci portano sul punto più alto, dove saremo ospiti del palazzo Tour d'Eau, rimesso a nuovo di recente sui ruderi che risalivano al 1730.

Lo gestisce Massimo Criscio che qui propone sei camere nuove per i turisti che vogliono provare un'esperienza di riposo o di vacanza imparando a cucinare. Propone anche una cucina del territorio di qualità a prezzi più che competitivi nelle tre sale ristorante ben attrezzate ed eleganti. Con 120 Euro a camera si può dormire, compresa la colazione, e con 30 Euro a testa si fa un pasto completo, esclusi i vini. Ci si arriva in una trentina di chilometri da Vasto Sud, poco più di mezz'ora lungo valli riposanti e con un panorama imprendibile dai suoi 600 metri di quota.


La scuola di cucina Abruzzo Cibus a Carunchio

Entriamo nel palazzo dalla porta principale, ostacolata da lavori in corso sulla strada di accesso. Al piano superiore sono allestite due salette, per la dimostrazione di preparazione dei dolci che poi saranno serviti durante il pranzo. In una si siedono gli ospiti di lingua inglese, indottrinati da una ragazza inglese che qui lavora nella scuola di cucina. Nell'altra saletta il cuoco italiano.

Si chiama Dino Alberto Paganelli e ci tiene la lezione di cucina a cominciare dai celucci, uccellini, della sposa, dolci della tradizione in occasione delle nozze, come altri dolci fatti con il vino cotto invecchiato molti anni o con mostarda d'uva fatta in casa. Infine un dolce al cioccolato, i bocconotti, che si lega alla tradizione borbonica ed è fatto in tutto il meridione, a base di cioccolato e mandorle. La cioccolata arrivava da Modica.

Dino si è specializzato alla scuola alberghiera, ma poi aveva ancora voglia di cimentarsi con la cultura e migliorare sé stesso e ha pensato bene di laurearsi in filosofia, ma la passione iniziale e il mestiere lo hanno trattenuto alla scuola del palazzo Tour d'Eau, di cui indossa il berrettino azzurro con visiera orlata di bianco, tipo quelli da ciclista. Da dietro la nuca gli spunta la treccia dei capelli raccolti e sul mento lo decora un piccolo pizzetto, che fa pendant con due baffettini sul labbro superiore. Professionale e di una grande simpatia, con quei suoi giochi di parole sul sessuale con i nomi e le forme dei dolcetti che ci sta illustrando.

Mentre armeggia con gli ingredienti sul tavolo di legno, Dino invita qualcuno dei presenti a provare con le proprie mani a fare i dolci insieme a lui. Si comincia dai bocconotti con tuorli d'uovo, olio di oliva extravergine e farina, poi si aggiunge la pasta di cioccolato, mandorle, vaniglia, cannella e altre cose buone, a seconda della tradizione della casa. Poi si fa bollire e si aggiungono uova e albumi che alla fine vanno infornati. La cottura è di una dozzina di minuti e poi si decora con un nastro di cioccolato, con aggiunta di caffé e latte. È il dolce più ricco e sostanzioso di quelli che oggi vengono presentati.

Dino prepara, a seguire, i cellucci ripieni. Si tira la sfoglia con il matterello la più sottile possibile. L'impasto è fatto con vino bianco, olio, zucchero messi a bollire, poi si raffreddano, ci si rompono due uova e poi si mischia insieme alla farina. Si fanno delle strisce e si stende sopra una marmellata di mostarda e si richiude dopo avere tagliato i bordi con la rondella o turuture. Poi si decora con un attrezzino che si chiama la pizzica, che vuole anche ricordare il primo approccio dello sposo nei confronti della sposa, che si cominciava a conoscere pizzicandola, dice Dino. Il celluccio è uno dei pochi dolci della memoria dannunziana; ne parla nella Figlia di Iorio. Una pasticceria di Scanno gli mandava i dolci, compreso il pane dell'orso, da lui ribattezzato parrozzo. Si riempie con una marmellata di prugne o susine o altri frutti, a seconda della stagione e di quello di cui si dispone. Con i cellucci ripieni si cimenta la Piera e si innamora dell'arte della pasticceria "Dino, non torno più via, se mi assume come aiuto pasticcera". Altri dolci a base di miele, come il mostacciolo, non sono stati proposti perché più lenti da preparare. Alla fine si torna al piano inferiore, nella sala da pranzo, dove sono già apparecchiate le sei tavole rotonde attorno alle quali pranzeremo.

In tavola su ogni tavolo un decanter con un vino eccellente, un uvaggio di Merlot al 70% e Cabernet Sauvignon al 30%. Ce lo illustra il padre di Massimo, Gerardo Criscio, un ex funzionario del ministero che ora è in pensione e che ha preso la malattia del vino buono. Conduce i tre ettari vitati del palazzo, uno a Merlot, uno a Cabernet e il terzo a Chardonnay. Il vino è ottenuto con procedimento biodinamico. Le vigne sono ad alta quota e quindi hanno poco bisogno di trattamenti. Dopo la raccolta piuttosto matura e la fermentazione in acciaio si fa un affinamento in botte grande di legno per un paio d'anni e poi ancora qualche mese in bottiglia. L'uso è familiare e ad uso esclusivo degli amici e dei clienti del ristorante.

Il vino in tavola ha un colore rosso rubino intenso, luminoso e brillante. Al naso si avvertono i frutti di bosco maturi, note di confettura persistenti, lievi sentori di tabacco e di cacao. In bocca è pieno, armonico ed equilibrato, di gran corpo e finezza. Al retrogusto rimangono la prugna e il mirtillo nero.
In tavola si comincia con uno squisito fiadoncino salato al tartufo nero, con pecorino e latte vaccino dentro una pasta sfoglia che lo fa assomigliare a un morbidissimo vol au vent e una spruzzatina finale di origano. A seguire 'ndurciglioni (pasta fatta in casa simili agli spaghetti alla chitarra nella forma) al ragù di agnello e castrato.

Al nostro tavolo c'è Vanessa e anche Antonio, che dà una mano a Massimo, fa la guida turistica e conosce molto bene questa sua terra proponendosi anche per gli itinerari del gusto e i prodotti tipici. È un giovane in gamba, misurato e colto, che ama anche fare il vino buono. Con lui si parla di Abruzzo e di altri prodotti e ancora di trabocchi e di trabucchi, come li chiamano in Puglia. La loro origine è normanna, e in effetti dopo la sua affermazione mi vengono in mente tutti quelli che avevo visto nei miei viaggi sulla Francia atlantica e anche sulle rive del Medoc, sopra Bordeaux.

Intanto Gerardo arriva con una bottiglia di un altro rosso, un Cabernet in purezza del 2005, ancora un po' slegato per i tannini che devono finire di maturare, e un bianco 2006, il suo Chardonnay. Entrambi sono ottimi. Le mie preferenze vanno all'uvaggio in tavola e al bianco che sono da concorso, anche se lui sostiene che non se la sente di rischiare un'esposizione così importante. Secondo me avrebbe ottime possibilità di segnalarsi. Arrivano gli affettati, la ventricina, il salame di fegato, quello piccante, una sorta di lonzino e il formaggio caciocavallo, che ci stanno a meraviglia con questi vini, insieme alle fette di pane casereccio già tagliate nel portapane di vimini. E dulcis in fundo ecco finalmente il fiatone dolce con pecorino e noci, i cellucci ripieni, i celli della sposa, i mostaccioli e gli altri dolci al cioccolato, accompagnati da un passito rosso degno fratello degli altri rossi di prima.

Sono le quattro del pomeriggio quando torniamo per la discesa ripida dal palazzo alla piazza di Carunchio dove ci aspettano il pullman e il paziente Sabrino che lo guida dal primo giorno del tour. Si riparte verso il mare. Il cielo si è di nuovo coperto e comincia un leggero e fitto gocciolio mentre scendiamo per le strade tortuose da Carunchio al mare, con molta prudenza e un gocciolio all'interno sulla testa di Toni che occupa il posto 27. Arrivati sulla costa si riprende un'altra strada verso l'interno, una variante della SS17 verso Roccaraso, a risalire il tragitto che seguiva il tratturo magno nella transumanza.

Al chilometro 10 sulla destra di fianco a noi le case di Forlì del Sannio e poi continuiamo verso Rionero Sannitico, dopo altri dieci chilometri e dopo avere ripreso il tragitto della strada statale 17 originale. Al chilometro 158 si va verso le stazioni sciistiche abruzzesi Rocca Pia, Roccaraso, Rivisondoli, Pescocostanzo. Intanto proseguiamo ancora verso Castel di Sangro, al chilometro 146. Boschi ampi e puliti e paesaggi pietrosi e una lunga discesa dolce verso l'ampia vallata del Sangro rallegrano la vista e l'animo. Dalla nuova statale si può ammirare la facciata barocca della chiesa di castel di Sangro, circondata dalle case antiche che sembra che si parlino e si raccontino i fatti delle persone che brulicano attorno ad esse.

Ormai siamo a Roccaraso, al chilometro 140, dopo una serie di gallerie, di cui la prima è la più lunga, in leggera salita. Si prosegue ancora per altri cinque o sei chilometro verso Rivisondoli e Pescocostanzo, lungo la tangenziale di Roccaraso. Ormai il sole è alle nostre spalle, la pioggia sta per terminare ma di fronte a noi continua e appare come per miracolo il semicerchio dell'arcobaleno che nasce a sinistra nel bosco, si alza armonioso fino al cielo e ridiscende a destra su un prato verde, con i suoi sette colori precisi e lucenti. Restiamo incantati per il paio di chilometri in cui ci accompagna, finchè ci fermiamo per una foto ricordo inevitabile perché è troppo bello.

All'inizio della deviazione verso Sulmona ecco Pescocostanzo. Il borgo antico è caratteristico e qui rivive l'arte del tombolo. Siamo a 1400 metri di quota e la temperatura è di dieci gradi centigradi, ma si sta bene.
Risaliamo a piedi la strada selciata a due colori a spina di pesce fino alle due chiese barocche in cima allo stradone principale. Poi in piazza Palazzo Fanzago, del secolo XVII, ex monastero di Santa Scolastica delle suore di clausura e oggi sede del museo del merletto a tombolo. Alla sua sinistra per chi guarda la chiesa di San Nicola e antica sede del Parlamento del 1100, rifatta nel 1588 e ancora all'inizio del 1700.

La fontana al centro della piazza è stata costruita da artigiani di Glasgow e lo facciamo notare all'amico e collega John Sheridan, dal volto rubizzo di perfetto scozzese per una foto ricordo. Riprendiamo il pullman per scendere verso il centro storico di Rivisondoli, a 1320 metri sul mare, famoso per il presepe vivente che vi si fa rivivere ad ogni natale con scene improvvisate nelle case dell'abitato, anche con il coinvolgimento degli animali nelle stalle.

La pavimentazione delle strade è a conchiglioni rossi bordati di bianco, fatti con sampietrini pesaresi, in quasi tutto il paese e le viuzze sono quasi tutte a scalini. Qui deve essere stato un poeta a dare i nomi alle stradine: Via della Luna, Via del Sole, Via Colle, Piazza sotto la casa Universale, Via del Carbonaio, Via del Gatto, Via delle Stradine, Via Fonticella. Lo stesso poeta deve avere pensato al presepe vivente e lo stesso poeta deve ogni anno tornare a rappresentarlo. A Rivisondoli c'è anche l'unico ristorante stellato della regione il Reale.
Infine sono quasi le otto quando arriviamo ai 1270 metri di Roccaraso, stazione sciistica principale dell'Abruzzo, dall'aspetto di Ortisei piuttosto che di Courmayeur o di Limone Piemonte nella struttura delle case del centro, anche senza la neve che ormai si è sciolta tutta.

Qui siamo al centro della piana delle cinque miglia che sta per diventare la zona degli altipiani maggiori d'Abruzzo. Ci sono tre comprensori sciistici collegati tra loro, per discesa e fondo, a partire dal bosco di Sant'Antonio, che costituiscono l'area sciistica più vasta di tutto l'Abruzzo e di tutta l'Italia meridionale.


La cena a Roccaraso da Cipriani

Si cena stasera ai tavoli del Grande Albergo di Armando Cipriani. Il servizio è veloce e il cibo tradizionale e saporito. In tavola vino Orfeo, un rosso Montepulciano d'Abruzzo DOC 2006 di 13,5 gradi dal lotto A03-8, di Gentile Vini di Ofena - L'Aquila. Il colore è un rubino pieno e brillante. Al naso ha un sentore vinoso con lieve speziatura abbastanza persistente. In bocca è equilibrato, fresco, gradevole e armonico con un corpo non molto importante, di pronta beva e un retrogusto piacevole di ciliegia e frutti di bosco maturi. Si inizia con una scodellina di sagnette e ceci, impreziosite con un filo di olio extravergine dell'ultimo raccolto. Poi ancora sagnette con un sugo bianco di carciofi selvatici e guanciale. Il piatto forte è un agnello porchettato con patate al forno e un timballo di orapi (spinaci) e cacio metà vaccino, metà pecorino. Al dessert una eccellente torta di ricotta fresca e pezzetti di cioccolato e poi una coppetta di fragole fresche in cui aggiungiamo un sorso di vino rosso Orfeo che la completa alla perfezione.

Durante la cena l'attivissimo Valerio Simeone si preoccupa di aggiungere nuove fotografie al suo archivio di volti e situazioni girando per i tavoli tra gli ospiti che cenano cogliendo espressioni particolari o curiose.
Prima del ritorno a Pescara, visto che il viaggio è lungo, il saluto dei sindaci dei quattro paesi degli altipiani maggiori, i tre visitati e Rocca Pia, che è il più basso, con i suoi 1050 metri e in cui ci fermeremo per un brevissimo saluto durante il ritorno all'albergo.

Oltre alla visita alla Montagna spaccata e alla zona naturalistica a Rocca Pia sono in preparazione altre iniziative per il periodo estivo, con la città del cavallo e percorsi ippici negli ampi territori del comune, che conta oggi solo 159 anime. Ormai le strade e le comunicazioni consentono di raggiungere velocemente questi paesi, che fanno sinergia e collaborano per uno sviluppo che possa portare ricchezza in tutta la regione.

Poco dopo le dieci e trenta riprendiamo la strada verso Pescara in compagnia della luna calante che ci aspetta bassa proprio sul porto del capoluogo dannunziano poco dopo l'inizio del nuovo giorno, come dice Marzullo, per darci la buona notte.


Sabato 24 Maggio 2008
Il Castello di Elice e la sua pasta alla Mugnaia

Oggi brilla per la prima volta in questo viaggio un bel sole pulito sul cielo di Pescara e il colore azzurro del mare riempie gli occhi mentre si fa colazione nella sala a pia no terra del Carlton di fronte alla marina de La Sirena. Alle 8.45 Sabrino è già pronto alla guida del pullman e noi siamo lì alla porta di salita per la partenza verso la stazione a raccogliere il gruppo del Plaza e alle nove verso Elice e il suo castello. Elice ricorda Ilex, la quercia dei boschi che coprivano anticamente questi monti.

Arriviamo al castello e ci accoglie il castellano Dino in tenuta del 1260 con calzamaglia e tela di sacco sulle spalle. Bussa deciso al portone di legno e ci appare una guardia con elmo sul viso e maglia di ferro sulle spalle. Entriamo nel cortile del castello. Il posto di guardia è occupato da damigelle in costume che mescono vino e bevande ai visitatori assetati. Nel cortile alcuni contadini espongono le loro mercanzie e i prodotti della terra.

All'interno del castello tre donne stanno lavorando la pasta alla maniera della mugnaia, quella che sfamava i mugnai, ma anche quella che si faceva, e si fa, tirando la sfoglia in lunghi budelli, che si assottigliano stringendoli tra le mani come nel gesto della mungitura, via via in dimensioni sempre più ridotte a costruire un anello unico sempre più lungo, anche oltre un chilometro. Per non fare attaccare la pasta alle mani, si tiene un piatto fondo pieno d'olio davanti al tagliere e ogni tanto ci si bagnano le dita e poi si continua a mungere e mungere. Le dosi si fanno più o meno a occhio, ma grosso modo si mescolano due parti di farina, un po' mescolata tra zero e doppio zero, con una parte di liquido. Il liquido è fatto da due parti di acqua e da una parte di uova. L'abilità di queste tre donne è straordinaria. Intanto nella sala a fianco si proietta un filmino dell'ultima festa d'agosto, "la notte nell'Ilex". La tradizione vuole che ogni anno si radunino 130 figuranti tutti in costume a inscenare momenti di vita medioevale per le strade del paese, con scene di mercato, tentati furti, catture e processi e condanne o assoluzioni.

Alle 10.50 tutti nella sala predisposta per il saluto del sindaco di Elice. Questo paese a 300 metri sul livello del mare, conta circa 1300 abitanti e vive di agricoltura. Il sindaco non dimentica nessuno dei produttori di Elice. Ospitalità, calore, genuinità e tipicità sono i valori che si vogliono trasmettere per migliorare l'economia turistica del paese. Olio, dolciumi, il Pannèro, la pasta alla mugnaia, formaggio e vino sono i vanti di Elice e della sua gastronomia, che due volte all'anno viene promossa da fiere nel paese. Dobbiamo lasciare il paese per la prossima visita. Ci spostiamo al Museo delle Tradizioni e Arti Contadine.


Museo dell'arte contadina a Picciano.

Il Museo è a Picciano. Ci arriviamo alle 11.30 e sul cartellone del MuTAC (questo è il suo acronimo) si vede la figura del Guerriero di Capestrano, il reperto piceno che risale al 600 - 700 a.c., contemporaneo di Etruschi e Villanoviani. Il museo è nato per iniziativa di un medico urologo, attuale Presidente, Franco De Silveri. Si configura come una onlus privata. Ci accoglie e ci guida Giovanna Russo, bravissima nell'organizzare il museo e a illustrarlo per aree.

Nel primo salone la mostra dell'emigrazione dall'Italia verso gli Stati Uniti d'America, con le fotografie della quarantena a Ellis Island. Nella seconda sala invece il vero e proprio museo, con le scene di vita contadina, illustrate da luci che si accendono tra le scene con una regia precisa e una voce in sottofondo che illustra le varie configurazioni. La prima scena è la preghiera del contadino, poi le luci si spostano sulla semina e di qui proseguono sulla fienagione. Tutti i costumi e gli attrezzi sono originali, alcuni anche del 1700. Seguono la mietitura, la vendemmia, la raccolta delle olive con la nebbia di novembre simulata. Al centro del corridoio tra le scene il carro della sposa e ancora lo stazzo con le pecore, l'attacco dei lupi al cerbiatto in mezzo alla neve, la scuola rurale elementare di inizio 1900, il trasporto del vino.

Alle pareti tra le scene completano la suggestione le riproduzioni dei dipinti di Basilio Cascella (1860 - 1950) di una bellezza disarmante. Dipinti che documentano quei tempi con l'orecchino o sciacquaglio nei primi piani delle donne abruzzesi, nell'eleganza delle donne di Scanno, la floridezza della donna con fazzoletto a fiori, la furbizia della donna di Pettorano e la bellezza di tutte quante.

Su un'altra parete "La storia d'Abruzzo", con la visione di alcune Domeniche del Corriere con le tavole di Beltrame e di Walter Molino su alcuni fatti di Abruzzo. Ad accompagnare la visione musiche in sottofondo scelte con maestria per creare ancora più suggestione.
All'esterno, nel cortile posteriore, il laghetto delle tartarughe in mezzo all'esposizione dei carri e degli aratri in ferro. Nella sala interna un piccolo bar per bere qualcosa e lì vicino bacheche con libri in esposizione, berrettini e magliette ricordo. Mi colpisce il libro sulla Presentosa, il gioiello tipicamente abruzzese e quello sulla vita quotidiana in Abruzzo, con i testi di Tullio Perilli e lo splendido titolo "Quand' parl' lu core".
Al piano di sopra visitiamo la zona del lino e l'area della tessitura, dopo avere visitato al piano terra quelle dell'olio e del grano.

È stupefacente la ricchezza e la quantità di attrezzi e piccoli particolari, sempre tutti originali, che compongono le varie scene. Persino il telaio è ancora funzionante, con la tela in costruzione montata, dove ogni tanto una signora del paese viene ad aggiungere alcuni centimetri di tela. Anche qui sulle pareti tra le varie scene e riproduzioni alcuni bellissimi quadri di fine ottocento italiano con opere riprodotte di Lega, Fattori, Cabianca, Palazzi, Michetti, Jules Breton, Induno e tanti altri.

Usciamo a malincuore comunque convinti di avere visto una delle tante pietre preziose nascoste nel mare delle grandi cose del passato che esistono ancora oggi in Italia, dalle grandi città ai piccoli paesini delle zone più nascoste. Semplicemente stupefacente questo museo, soprattutto per tutte le scolaresche che potrebbero venirci in abbonamento una volta al mese per vedere come vivevano i loro nonni e bisnonni.


Bosco Nestore a Nocciano

Ci accoglie in azienda Giovanna, che si occupa delle vendite. L'azienda ha già 110 anni di storia alle spalle. I vigneti di proprietà sono 60 ettari e 20 sono gestiti in affitto. La produzione arriva a 600.000 bottiglie l'anno. I vitigni di punta sono Montepulciano e sangiovese grosso tra i rossi, Trebbiano d'Abruzzo, Chardonnay e altri minori tra i bianchi. Anche le linee di lavorazione sono separate tra uve bianche e uve rosse, a partire dalla pigiatura nelle presse a polmone, una per le uve bianche e una per le uve rosse.

Scendiamo poi nei fondi sottoterra a vedere la barricaia e le nicchie di affinamento dove la metà della produzione annua sta ad invecchiare nelle bottiglie in questo ambiente che sembra una cattedrale, ordinato e pulito, con gli archi di mattoni rossi e la temperatura e l'umidità tenute sotto controllo. L'enologo è Riccardo Brighigna, che oggi però non è presente. I numerosi premi ottenuti dai vini sia in Italia, sia in Francia e in altre parti del mondo, sono lì a testimoniare la bontà del suo lavoro e dei suoi collaboratori.

Usciamo nel prato esterno, sotto alla tettoia di fianco alla gabbia dei quattro pavoni dalla lunga coda piumata, per una degustazione del loro Pecorino, accompagnato a fette di pane casereccio unte dall'olio extra vergine delle terre d'Abruzzo, per un avvio benaugurale della panarda che di lì a poco va ad iniziare alla grande tavolata del Ristorante La Lanterna di Cepagatti, qui vicino.


La Panarda al ristorante La Lanterna di Cepagatti

Alle tre meno un quarto siamo arrivati al ristorante dove si terrà il rito della Panarda. È una gran festa, un ritrovo di persone che alla fine saranno legate da una profonda amicizia. È un lungo viaggio nella tradizione culinaria e gastronomica d'Abruzzo, in cui si succedono una dopo l'altra una cinquantina di portate, dai pesci agli antipasti, dalle minestre alle carni, dai formaggi ai dolci. Ho deciso di dedicarle un capitolo a parte perché merita uno spazio tutto suo, per bellezza e unicità di manifestazione. Vi racconterò in quel capitolo la vera natura della Panarda. Qui mi limiterò a dire che il rientro in albergo di tutto il gruppo ha creato un legame di amicizie e oserei dire di affetti quasi magici tra persone prima sconosciute. Si diventa come degli antichi compagni di scuola che hanno passato anni sugli stessi banchi, fianco a fianco l'un l'altro, che poi si separano e ognuno va per la sua strada, ma quando ci si rivede è tutto un abbraccio e un "Ti ricordi di …?".


Domenica 25 Maggio 2008
Abruzzo, Addio o arrivederci?

Ancora un'esperienza unica, stavolta in terra d'Abruzzo, tra gente semplice e piena di risorse, tra luoghi sconosciuti e chiese e sacralità antica, quasi magica. Il corpo parte per il nord, in una transumanza a rovescio, ma un pezzo di cuore è rimasto qui, a godere ancora dei colori degli altipiani e di quegli arcobaleni di montagna, delle bellezze naturali della costa e dei trabocchi, dei sapori dei cibi, della cordialità delle persone. Conto di tornare, prima o poi, a riprendermi il mio pezzo di cuore.

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Luigi Bellucci

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Sono nato in una torre malatestiana del 1350 sulle primissime colline del Montefeltro romagnolo, massi rotolati fino all'Adriatico...

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