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Il Carnevale, di Pier Luigi Nanni

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Il Carnevale

di Pier Luigi Nanni

Il periodo che precede la quaresima, appunto il carnevale, ha origine da antiche usanze pagane, i lupercoli, cioè riti di purificazione del quindici febbraio e celebrati dai sacerdoti “luperci”. Inoltre, i saturnali, in quanto festa popolare dell’antica Roma, in onore di Saturno che dal 17 al 23 dicembre annullava le barriere sociali e servili: il servo diventava il padrone mentre il padrone diveniva servo!
Nel XV° sec. vi furono notevoli e pesanti attacchi al carnevale in quanto i riti, banchetti ed i festeggiamenti erano giudicati troppo “pagani”, per cui oggetto di repressioni moralizzatori.

Anche le sagre popolari, alcune decisamente rozze e violente come la festa dell’asino e quella dei polli, in quanto si concludevano sempre oltre misura della correttezza e dell’intrinseco significato allegorico. Il carnevale, nonostante le innumerevoli avversità incontrate nell’arco dei secoli, è sopravvissuto ed a dato vita a nuove attività celebrative: colpi di sassi e di bastoni; lotte rituali tra rioni e quartieri della stessa città a cui oggigiorno ci ricordano la famosa battaglia delle arance ad Ivrea, o addirittura tra città diverse.

Noti e tragici i combattimenti tra diverse classi di cittadini e tra circoscrizioni: non erano altro che le uniche occasioni da parte del popolino, di rifarsi dei usuali soprusi da parte dei ricchi e dalla prevaricante nobiltà. Questi “scontri”, in quanto tali, accadevano per le strade, mentre nella quiete dei giardini patrizi e nei palazzi signorili, la nobiltà si dilettava in giochi cortesi sbalordendosi a vicenda per l’abilità nell’utilizzo delle armi. Nel tardo medioevo si diffuse la moda di travestirsi, o meglio, si riprese l’antica usanza di mettersi in “maschera” e di scambiarsi i ruoli, burlarsi delle figure gerarchiche e satireggiare vizi di persone o malcostumi con quelle stesse maschere ancora oggi note in tutto il mondo, poiché divenute simbolo delle umane debolezze e di città. La festa di carnevale, con i suoi travestimenti, i suoi sontuosi pranzi e la travolgente allegria, ha sicuramente contribuito alla consacrazione della commedia dell’arte e delle sue maschere.

A Torino troviamo Gianduia, mentre nel milanese vi è Meneghino; Arlecchino a Bergamo e Stenterello a Firenze; i veneziani Pantalone con gli allegri Colombina e Brighella; a Bologna il Dottor Balanzone ed il furbo Fagiolino; il saggio Stenterello a Firenze; i classici romaneschi Rugantino e Meo Patacca mentre è siciliano il buon Pasquino; il veronese Fracanapa ed il brillante e scaltro partenopeo Pulcinella: così che ogni luogo aveva il suo personaggio da portare in piazza ed emulare.

La tradizione del carnevale è sempre stata rispettata anche con i classici cortei di carri mascherati ricchi di allegria, caricature e l’immancabile lancio di coriandoli, caramelle e dolcetti. In Italia vi sono vari e conosciuti cortei tra cui quello di Viareggio, di Venezia, di Putignano, di Meldola, di Gambettola, di Cento di Ferrara, unico gruppo italiano invitato al “grande” carnevale di Rio de Janeiro e quello particolare di San Grugnone di Conselice, poiché si tiene il primo giorno di quaresima, le ceneri, quando le feste carnevalesche sono finite.

Le origini del carnevale sono indiscutibilmente religiose, in quanto le maschere erano già utilizzate dall’uomo fino dal paleolitico: durante riti propiziatori e magici, gli stregoni e sciamani indossavano costumi adornati di piume e sonagli assumendo così aspetti terrificanti, grazie a maschere dipinte nell’intento di scacciare gli spiriti maligni. Ma è soprattutto nel periodo imperiale dell’aquila romana poiché si svolgevano feste in onore degli dei che ritroviamo le origini del carnevale, per cui la tradizione ha fatto in modo che ogni italica regione vanti una personale originalità culturale richiamando così turisti e visitatori da ogni parte del mondo.

La radice etimologica è alquanto incerta: alcuni studiosi la fanno risalire al “CARRUS NAVALIS”, carri a forma di nave usati a Roma durante le innumerevoli processioni di purificazioni per ingraziarsi gli dei, e chi da “CARMEN LEVARE”, tradizione medioevale decisamente più prosaica e godereccia: il carnevale, crapulone ed ingordo, incarna nel suo seno sia l’esorcizzazione delle miserie di una vita di stenti, sia la sfrenata volontà di consumare un banchetto di “addio alla carne” durante la sera che precede il sorgere del sole del mercoledì delle ceneri, saziandosi fino alla nausea prima dei previsti digiuni quaresimali!

Le “ceneri”, rito propiziatorio di chiara origine contadina, ben augurale per la fecondità della terra, consisteva nel bruciare in piazza un grottesco spaventapasseri o la cosiddetta “vecchia” e seppellirne le ceneri quel mercoledì stesso. Il bruciare la vecchia o un vecchione, è ancora attuale in molte città italiane, ed avviene la notte di San Silvestro significando così di lasciarsi alle spalle un anno non sempre ottimale e che sia un auspicabile augurio per un nuovo anno migliore.

Destinato ad anticipare e compensare i rigori della quaresima, il carnevale è il periodo dell’eccesso alimentare, in quanto nelle successive settimane di penitenza, seguendo i precetti della chiesa, non era possibile mangiare carne ed altri alimenti che eccitano i sensi: anche numerosi statuti cittadini, facendo proprio il principio religioso ordinarono, tramite editti, di cessare la macellazione delle carni. A seguito di tali limitazioni, nell’ultima settimana di carnevale avveniva una massiccia concentrazione dell’alimentazione con ogni tipo di carne a tutti i livelli sociali, di festini e banchetti che avvenivano al giovedì e sabato grasso, la domenica ed al martedì che concludeva questa immane abbuffata.

Tale fenomeno godereccio, se vogliano definirlo tale, è dettato anche dall’elemento stagionale in quanto si finivano di consumare le scorte invernali e col consumo di beni in grande quantità si propiziavano abbondanza e fertilità.
Altra curiosità ma non alimentare però legata al carnevale, sono i “coriandoli”: questi tondi di carta colorata e di varie misure, si dice inventati da uno sconosciuto milanese, all’origine erano semi della pianta di ‘coriandolo’ ricoperti di gesso, come confetti, da lanciare dai balconi e dai carri allegorici.


Tradizione carnevalesca in tavola

Da amici bresciani mi giunge la tradizione di cucinare lattughe e frittelle, cioè dolci poco costosi e di rapida preparazione, da offrire alla moltitudine di amici e parenti che intervenivano ai festeggiamenti di questo periodo. Ma è risaputo che ogni regione, per non dire tutte le città italiane, hanno il proprio dolcetto che richiama la tradizione del carnevale, da qui l’usanza dei fritti nell’olio bollente, o addirittura nello saporito strutto, che si gonfiano fino a diventare morbide e fumanti prelibatezze, pronte per essere decorate con una buona dose di zucchero a velo: acqua, farina e zucchero che ancora oggi, pur aggiungendo qualche ingrediente, si trasformano in dorate e fumanti frittelle di mele o di ricotta, raviole riempite con la dolce mostarda, castagnole, zeppole, tortelli con la delicata crema, stuffoli, frappe, cenci, chiacchiere e le fragranti sfrappole, per cui la golosità di gustarli in questo periodo certamente non manca!

Ma il dolce per eccellenza del carnevale rimane la frittella, in tutte le sue diverse preparazioni gastronomiche. È un’usanza antichissima ed in ogni parte del mondo sono identificate simbolicamente con questa festa e che nei testi di pasticceria si trovano in innumerevoli versioni: farcite con confettura, col miele, profumate al limone, con le mandorle, di riso o di frutta, di uvetta, di mele e cosparsi di zucchero a velo e da consumarsi ben calde in abbondanza in un clima magico e festoso!


Dalle italiche regioni alcuni noti dolcetti di carnevale

- Trentino - strauben e crostoli;
- Friuli Venezia Giulia, crostoli;
- Lombardia, frittelle e tortelli e chiacchiere;
- Valtellina, turtei e paradel e li manzola;
- Venezia, frittelle di mele alla veneziana;
- Veneto, crostoni e galani e fritole de risi;
- Piemonte - Liguria, bugie;
- Bologna, sfrappole bianche o con alchermes;
- Emilia Romagna, frappe e castagnole e grustul;
- Firenze, cenci fiorentini;
- Toscana, frangette;
- Umbria, cicerchiata.
- Campania, zeppole e struffoli e corona di Santa Rita;
- Molise, camicione e caviznu;
- Puglia, cartellate al miele;
- Calabria, cicerchiata e pignolata calabra;
- Messina, pignulata;
- Sicilia, pignoccata.

A tutte queste incommensurabili dolcezze, sono innumerevoli i vini adatti per un ottimo mariage: dalle preziose, accattivanti e dolci bollicine dell’asti moscato o di un purpureo brachetto d’Acqui; un ricco ed aromatico malvasia dei colli di Parma o delle lussureggianti colline piacentine. Se invece si gradiscono altre tipologie di vini, sempre dolci mi raccomando, l’italica enoicità permette di spaziare in ogni regione con produzioni uniche e decisamente accattivanti.

Dal passito di Chambave della Valle d’Aosta al moscato giallo o rosa del Trentino; il raro e prezioso moscato di Scanzorosciate della Lombardia ai friulani ramandolo e picolit; il sempre più introvabile sciac-tra della riviera ligure di ponente o il romagnolo ed ambrato albana passito; vin santo della Toscana; la marchigiana vernaccia di Serrapetrona; dall’Umbria il sagrantino passito mentre in Veneto vi è il dorato recioto di Soave o il rubizzo recioto della Valpolicella; aleatico di Gradoli nel Lazio ed il raro greco di Bianco della Calabria; un delicato bianco passito annoso d’Abruzzo o il moscato passito molisano; nell’isola d’Ischia l’accattivante per’e palummo passito o un rubino primitivo di Manduria dolce naturale; il marsala ed il passito di Pantelleria siciliani; lo straordinario anghelu rujo della Sardegna.

Come si può notare, questi vini non sono altro che una limitata nota dei tanti altrettanti buoni e caratteristici che possiamo trovare in ogni regione e per il proprio gusto personale, ma l’importante è stapparli al momento freschi di frigo a 10-12°C, servendoli in piccoli e luminosi calici: come sempre, mi raccomando, bere poco ma bene soprattutto in piacevole compagnia, poiché come dice un anonimo buongustaio della tavola, “…chi beve da solo si strozza!”. Prosit.

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