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Fagiolo, la carne dei poveri (forse), di Pier Luigi Nanni

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Fagiolo, la carne dei poveri (forse)

di Pier Luigi Nanni

Marco Gavio Apicio attorno al IV° sec d.C. scrisse nel suo trattato “De re coquinaria”, che poi a sua volta fu volgarizzato da Giambettista Baseggio nel 1852 si legge che “ … i fagiuoli et i ceci si apprestano con sale, cumino, olio e un po’ di vin puro. Fagiuoli o ceci in altro modo. Fritti con sapore vinoso e pepe, usali negli antipasti. Lessati, poi, grani e gusci insieme, si apprestano per salumi, acconci in tegami con finocchio verde, pepe, sapore e un po’ di sapa; od anche semplicemente senza salumi”. Al cibo cosiddetto vile, inteso come ordinario e plebeo, non viene riservato molto spazio. Appartengono a questa categoria i fagioli o, come scriveva Virgilio nelle “Georgiche”, “VILIS PHASELUS”.

La letteratura latina abbonda di descrizioni riferite ad eccessi alimentari ed abbondanti bevute, ma nonostante sia giunta fino a noi la fama godereccia di personaggi letterari come Trimalcione e Lucio Licinio Lucullo accumulati dal fatto di essere i principali interpreti di opulenti e stravaganti, luculliani appunto, pranzi, nel resto dell’immenso impero sotto le insegne dell’aquila conquistatrice, gran parte della popolazione si nutre molto più semplicemente, per fortuna!
La base alimentare dei romani di allora era costituita da un’infinità di zuppe quali di farro, lenticchie, fave e piselli insieme a formaggio di capra o pecora, latte, uova, miele e vino. Il grano proviene dai granai dell’impero, cioè Sicilia ed Egitto, mentre il nutrirsi di carne in questa epoca ha dell’eccezionale come del resto avveniva nell’antica Grecia.

Omero riferisce che solo gli eroi sono degni di mangiare carne, mentre agli uomini comuni è riservato il pane. Nell’urbe vigeva una sorte di stato sociale ante litteram che garantiva alla plebe la distribuzione gratuita o a prezzi controllati carne di maiale e pane. Ed i fagioli? Si trovano inseriti in un sistema produttivo che concentra tutti i suoi sforzi nella produzione del grano, per cui sono considerati solo marginalmente.

Si apprende da Galeno, medico greco, 129-201 d.C., nel “Della natura et vertu di cibi” che i fagioli si condivano con il garum, una salsa che per i romani era una vera leccornia: “ … una salsa di pesci d’ogni sorta meschiati con sale e poscia redotti in pasta, tolte le teste, che si conservava e si aveva sempre alla mano nelle cucine de romani”. Il composto così ottenuto veniva esposto al sole per favorirne la fermentqazione ed una volta filtrato si poteva consumare.

I greci conoscenano i fagioli e per primi gli danno il nome di “PHASELOS”. Galeno descrisse ancora delle affermazioni di Ippocrate, medico greco e padre della medicina, 460-370 a. C., riferite al fagiolo, “ … i piselli sono men flautulenti et si smaltiscono meglio, ma l’arabea et i dolichi [i fagioli] si digeriscono meglio di questi et son men ventosi et più nutritivi”.

Da dove provengono le nostre leguminose se scavi e ritrovamenti in Italia ed in Europa non ne hanno evidenziato nessuna traccia? Una tra le tante ipotesi, è che siano di origine afro-asiatica.

I fagioli dall’occhio sono ampiamente diffusi in Africa sotto il deserto sahariano, in quanto sono state rinvenute tracce molto antiche di questa coltivazione. Dovevano essere quelli africani i fagioli che i coloni greci trapiantarono nella Magna Grecia circa nel 300 a.C. e che poi dal sud dell’Italia si sarebbero diffusi nel resto della penisola e poi successivamente in tutto l’impero romano.

In occidente sarà la chiesa cattolica a dare un forte impulso all’agricoltura. Nel VI° sec Benedetto da Norcia fonda l’ordine dei benedettini la cui vita in comune dei religiosi è disciplinata secondo la regola “ora et labora” che impone, appunto, oltre alla preghiera ed alla meditazione, anche il lavoro nei campi.
I monaci escludono tendenzialmente la carne a favore di una dieta basata sui prodotti della terra.

Alla cultura gastronomica della nobiltà e ricchi, basata sulla selvaggina a pelo corto come cervi e cinghiali cotti alla brace, si contrappone quella convenzionale di tipo quasi vegetariano. I fagioli contribuiscono a preparare zuppe con il farro, il sorgo e l’orzo. L’unione con l’orzo è destinata ad attraversare i secoli e ad arrivare fino ai giorni nostri, anche se in Trentino, Veneto e Friuli la minestra di fagioli non si prepara con la pasta ma con l’orzo perlato.


I fagioli ai giorni nostri




Arrivando ai giorni nostri, i fagioli fanno la loro parte come contorno, bolliti con poche erbe, mescolati con la cipolla, accompagnati con il pepe o come ingredienti principali di zuppe corpose legate da matrimonio d’amore alle cotiche di maiale.
Firenze e la Toscana in generale, sono la patria elettiva del phaseolus vulgaris. I fagioli in fiasco, cioè cotti appunto in un fiasco con acqua, olio, aglio e salvia per ore sulla brace ardente; l’infarinata, preparata unendo fagioli e farina di mais in egual misura; la minestra di pane, con cavolo nero, lardo e pane raffermo; all’uccelletto, con olio d’oliva, salvia, aglio e polpa di pomodoro, sono alcune delle numerose ricette della tradizione regionale toscana.

Certamente la nomea di “CARNE DEI POVERI” il fagiolo se l’è ampiamente meritata in quanto le proteine in esso contenute sono molto simili a quelle della carne.


Produzioni rare di fagioli

Nella ristretta zona di Pratomagno in provincia di Arezzo, precisamente sulla sponda destra dell’Arno ed in nove piccolissimi comuni limitrofi, in una piccola porzione di territorio 30-40 ha, i fagioli si coltivano da sempre, ma non sono i soliti pur ottimi legumi, sono quelli denominati “ZOLFINI o BURRINI”. Pochi ed ormai anziani produttori nel raccolgono circa 300 q. appena sufficienti per organizzare il 1° maggio a Penna la festa a loro dedicata. Quello che rimane, a dir la verità molto poco, vanno sugli scaffali di qualche “orefice del gusto”, poiché per acquistarli si necessita di quasi 20 €/kg: alla faccia della carne dei poveri!

Si presenta con forma gobbosa e leggermente panciuta, di un tenue giallo come il burro o meglio ancora, come lo zolfo, buccia fine e sottile con pasta cremosa e densa: in altre parole, si scioglie in bocca! Ha la particolarità che deve essere piantato il centesimo giorno dell’anno in terreni renosi, sciolti, asciutti e poveri e raccolto tra luglio ed agosto. È una varietà nana del “phaseolus vulgaris”.
Indro Montanelli scrisse sul Corriere della Sera uno straordinario elogio delle qualità del fagiolo di Soragna. Si produce in fazzoletti di terreno di pochi ettari nella zona tra i versanti orientali ed occidentali delle colline della valle di Pescia di Pontino, in provincia appunto di Pescia e Pistoia. Piantato in terreni di sabbia di ghiaretto e con un poco di terra di boschi di castagno e faggio. La forma irregolare è piccola e schiacciata di colore bianco perlaceo con delicati riflessi rosati, buccia sottile e tenerissima.

La seconda domenica di settembre, il paese di Soragna organizza un’attivissima festa nella piazza centrale in onore a questo ottimo e raro legume.
Altro personaggio importante, Giocchino Rossini, non esitava a farsi pagare con “buoni fagioli di Soragna” mentre Edmondo De Amicis giura di averli visti in vendita nientemeno che al mercato di Costantinopoli.

Siamo in provincia di Belluno, precisamente a Lamon dove si coltiva il fagiolo “BORLOTTO”, meno pregiato della tipologia a pasta bianca, ma senzaltro di notevole gustosità. I borlotti si coltivano anche in provincia di Imperia e quelli che si producono a Badalucco, Conio e Pigna, sono decisamente preziosi e ricchi di piacevoli gustosità.

A Sarconi, siamo in Basilicata e precisamente in provincia di Potenza, si coltiva ancora un’antica varietà di fagioli lucani. In Abruzzo, un minuscolo paesino in provincia di Pescara, Civitella Casanova, si produce un raro fagiolo autoctono chiamato “TONDINO DI TAVO”.

Ai conoscitori e produttori di altre realtà di fagioli ugualmente meravigliosi al palato, chiedo loro di perdonarmi se non ne riporto altri, ma conoscerli e menzionarli tutti sarebbe un’impresa ardua ed impossibile, in quanto in ogni regione dello straordinario territorio italico probabilmente, anzi certamente, se ne coltivano ed identificano specifiche zone.
Un’ultima e definitiva considerazione

Vagabondando per l’Italia ho notato che la terra viene coltivata quasi esclusivamente da persone anziane per cui mi sono chiesto: chi sostituirà i custodi dei più bei segreti della nostra tavola invidiata e copiata in ogni parte del mondo? Chi ci permetterà di assaporare ancora le innumerevoli leccornie che riusciamo a mangiare?

Certamente non le multinazionali del “disgusto” vero! È’ così osceno occuparsi della campagna, di agricoltura? Non credo che dedicare le proprie forze e risorse alla terra sia così peggio che stare tante ore chiusi in fabbrica come poveri polli in una stia?

Non sarebbe male se i giovani portassero entusiasmo e modernità in un mondo che è in noi e fa parte del dna che ognuno, intrinsicamente e sviluppato a propria immagine e conoscenza, ha dentro di sé e che ci appartiene fino in fondo!
Magari facendosi chiamare “imprenditori agricoli”, così anche l’orgoglio sarebbe salvo.


Da “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” di Pellegrino Artusi:

Zuppa toscana di magra alla contadina

Ingredienti: Pane raffermo di pasta molle grammi 400; fagiuoli bianchi grammi 300; olio grammi 150; acqua litri 2; cavolo capuccio o verzotto mezza palla di mezzana grandezza; cavolo nero altrettanto in volume e anche di più; un mazzo di bietola e un pochino di pepolino [peperoncino]; patata 1; alcune cotenne di carne secca o di prosciutto tagliate a sottili striscie.

Preparazione: mettere i fagiuoli al fuoco con l’acqua suddetta unendovi le cotenne. Già saprete che i fagiuoli vanno messi ad acqua diaccia e se restano in secco vi si aggiunge acqua calda. Mentre bollono fate un battuto con un quarto di una grassa cipolla e due spicchi di aglio, due pezzi di sedano lunghi un palmo e un buon pizzico di prezzemolo. Tritatelo fine, mettetelo al fuoco con l’olio sopraindicato e quanto avrà preso colore versate nel medesimo gli erbaggi tagliati all’ingrosso, prima i cavoli, poi la bietola e la patata tagliata a tocchetti.

Conditeli con sale e pepe e se nel bollire restassero alquanto asciutti bagnateli con la broda dei fagiuoli. Quando questi saranno cotti gettatene una quarta parte, lasciati interi, fra gli erbaggi unendovi le cotenne; gli altri passateli allo staccio e scioglieteli nella broda, versando anche questa nella broda dove sono gli erbaggi. Mescolate, fate bollire ancora un poco e versate ogni cosa nella zuppiera ove avrete già collocato il pane tagliato a fette sottili e copritela per servirla dopo una ventina di minuti.

Questa quantità può bastare per sei persone.

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