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Il colore del vino, di Pier Luigi Nanni

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Il colore del vino

di Pier Luigi Nanni

Emile Peynayd, il più carismatico, autorevole ed influente enologo del XX° sec. scrisse che “…il colore del vino è come il carattere scritto sul volto umano”. Una frase apparentemente sibillina, ma che è in realtà, abbastanza chiara e significativa. Proprio come l’età e le esperienze esistenziali segnano il volto di ogni singolo essere umano, così il colore di un vino dice tanto sulla vita e le sue esperienze: le uve da cui fu prodotto, il luogo in cui furono coltivane ed allevate, il momento in cui furono vendemmiate ed il modo in cui il vino che diedero, fu fermentato, maturato ed affinato. Una puntualizzazione, comunque, è d’obbligo, anche se potrà apparire evidente: piuttosto che parlare del colore naturale del vino - giallo paglierino, rosato, rosso rubino - sarebbe estremamente più corretto utilizzare tale termine, cioè il “colore”, al plurale. Il vino arriva in innumerevoli sfumature della tipologia di colore di appartenenza, per cui non ve n’è nessuna in modo particolare, né per il bianco o il rosato e tantomeno per il rosso, che sia di per sé più attraente, più desiderabile o più corretto.

Proprio come il Duca di Mantova nel Rigoletto di musica verdiana, per il quale “…questa o quella/per me pari sono/a quant’altre intorno mi vedo/del mio core l’impero non cedo/meglio ad una che ad altra beltà”, una parte del piacere nell’aumentare la conoscenza sul vino è quella che deriva dalla grandissima varietà delle sfumature che il vino pregiato può offrire. E la ragione di tali differenze non potrebbe essere più semplice. Le singole uve da cui sono prodotti i vini hanno tutte un differente patrimonio genetico ed una altrettanta differente composizione chimica-organica nelle bucce, che sono la vera fonte del colore stesso di un vino: la polpa, nella maggior parte delle uve, è piuttosto priva di colorazione in quanto sempre tendente a pallidi toni paglierini, per cui ecco spiegato come mai si possono produrre spumanti o uno champagne, senza la minima difficoltà tecnica, con uve di pinot nero, in prevalenza o addirittura da sole. Tali fattori si riflettono nel colore e sfumature finali del vino. Altro esempio pratico, nelle bucce del riesling vi sono specifici elementi che danno inconfondibili tinte dal verdolino al giallo complessivo della tonalità.

Altro fattore determinante del colore di un vino è il fattore umano, cioè l’uomo che fa il vino e le decisioni che prende: quando cogliere l’uva, come fermentarla e come maturare ed affinare il vino che ne ottiene. È precisamente questa facoltà , questa libertà di influenzare, di trasformare lo stesso frutto in un numero illimitato di bevande, che ha attribuito al vino il suo posto d’onore nelle civiltà mediterranee ed in tutte quelle toccate dallo spirito che il “mare nostrum” ha da sempre saputo diffondere e valorizzare. A proposito di vini bianchi, anche se tale aggettivo è leggermente fuorviante, in quanto si tratta di un’unica serie di molteplici variazioni del colore base e naturale, del giallo paglierino, dato che le uve stesse presentano toni cangianti di giallo al fatidico momento della vendemmia. Alcuni anni fa, vi fu un piccolo boom riguardante la produzione di vini che venivano descritti come bianco carta a causa dell’estremo biancore che era una virtuale assenza di colore, per cui due calici, uno riempito di acqua e l’altro di tali “vini, all’analisi visiva erano pressoché uguali, per cui era necessaria, in primis, l’analisi olfattiva per determinare quale dei due fosse questa meraviglia della moderna tecnologica di cantina: fortunatamente, sono miseramente andati fuori moda.

Tuttavia, vi è stato un cambiamento significativo nel colore del vino “bianco” italiano nel dopoguerra. Fino agli anni ’50-’60 molti dei più famosi bianchi italiani - frascati, marino ed altri dei castelli romani; verdicchio; orvieto; i vini del Friuli - erano fermentati sulle bucce dando luogo ad un colore giallo pieno e profondo. Purtroppo, in conseguenza a tecniche di fermentazione tradizionali tramandate da padre in figlio, tali vini avevano un gusto ed un aroma troppo marcati, inoltre, tendevano ad un’ossidazione abbastanza precoce e marcata presenza di sedimenti da rendere il vino, non solo con tonalità eccessive, sgarbatamente torbido. I gusti attuali, tendono a privilegiare vini bianchi dalla piacevole freschezza, ricchezza di aromi fruttati e floreali, titolo alcolometrico contenuto e di pronta beva, cioè beverino e non troppo impegnativo: ciò è dovuto al fatto che le tecniche enologiche si sono evolute, per cui, la conseguenza è che le sfumature del vino si sono chiarificate.

Il tipico vino bianco del nord d’Italia, è prodotto con uve vendemmiate sottomaturazione, cioè prima della piena maturità, per conservare un’acidità tonica e viva, ammostate immediatamente e vinificate, senza o almeno con breve contatto con le bucce per non estrarre troppe sostanze coloranti, in vasi vinari di acciaio inossidabile ed a temperatura controllata, onde poter esaltare al massimo profumi, aromi e freschezza: tali vini tendono ad essere di colore giallo paglierino con nette tonalità verdoline o della paglia essiccata e brillante. Attualmente, dato che vi è una richiesta da parte dei consumatori di vini bianchi con maggior pienezza e ricchezza di peculiarità, un notevole gruppo di produttori ha iniziato a vendemmiare le uve solo quando raggiungono le netta maturazione, eseguendo la fermentazione sulle bucce, per cui così si avranno sfumature decisamente più marcate e decise, struttura più evidente e sapori risoluti: tutto ciò comporta però ad avere il titolo alcolometrico sempre più elevato ed evidente, e non a tutti i consumatori può essere gradito.

Nel corso degli anni ’80, innumerevoli aziende vitivinicole italiche, hanno cominciato a produrre le personali versioni di uno stile internazionale, basate principalmente con uve di chardonnay, sauvignon e pinot bianco, fermentate e maturate in piccole botti di rovere da 225 l.: le barriques! L’interazione tra le tipicità delle essenze delle doghe e quelle del vino, che solitamente rimane in contatto col rovere non solo durante la fermentazione e maturazione, ma anche per periodi che possono variare da qualche mese, 6-7, ad un notevole periodo quali 12 mesi, come è riportato in certi disciplinare inerenti alle DOC o DOCG, dopo che tali processi si sono completati, dando così origine ad un vino, sempre giallo paglierino in quanto è il colore di base, ma con toni nettamente marcati quali il dorato oppure un tenue ambrato che identifica inconfondibilmente tale tipologia con aromi speziati (liquirizia, vaniglia, tabacco e legnosità).

Un accenno meritano i vini da dolci.

Solitamente sono ricchi di residuo zuccherino, per cui facilmente individuabili e riconoscibili. Tali tipologie sono necessariamente prodotti con uve surmature, la cui maturazione è ulteriormente accentuata o con una vendemmia tardiva o essiccamento prolungato sulla vite stessa. Le uve così ottenute, si possono sistemare in cassette o ripiani in locali termo ventilati, onde favorire un aggiuntivo essiccamento: è buona norma che le uve siano controllate con regolarità, in modo tale che se si formano muffe e si innescano trasformazioni non volute, si possa intervenire immediatamente. Determinati disciplinari produttivi, prescrivono che le uve devono essere pesate “prima” del posizionamento, ed occorre attendere che il peso iniziale si riduca almeno della metà, prima di essere ammostate: i vini così ottenuti, appartengono alla tipologia dei “passti”. Altra maniera per ottenere vini dolci, soprattutto completi ed evoluti, ricchi di peculiarità e piacevolezze, sono quelli prodotti da uve attecchite in parte dalla muffa nobile - botritys cinerea -: tonalità più profonde, dal giallo oro antico al ramato o bronzeo e con un prolungato affinamento in bottiglia, nettamente ambrati.

I vini rossi, e qui sfato un luogo comune ed atavico inerente al vino “nero”: è scientificamente provato che sul nostro pianeta il vino nero non esiste, anche se si utilizzano uve a bacche nere, violacee ed addirittura tendenti al bluastro, ma che durante le varie operazioni di elaborazioni rilasceranno l’immancabile vino rosso, cupo e scuro finchè si vuole, ma sempre e solo rigorosamente ROSSO! Appurato che i vini rossi presentano una gamma di sfumature, il colore base è “rosso rubino”, ancora maggiore, le possiamo verificare nel purpureo scuro di un dolcetto, nel nero d’Avola o un cabernet sauvignon; al deciso granato di un sangiovese, montepulciano d’Abruzzo o in un aglianico; al porpora intenso dalle delicate sfumature granate in un pinot nero ed i quei vini aventi come vitigno principali il nebbiolo, quali barolo, barbaresco, gattinara e ghemme. Forse vale la pena di ripetere un’osservazione fatta precedentemente: la tonalità più scura e marcata non è l’equivalente di “migliore”, per cui occorre veramente tanto coraggio ad affermare che il profondo e scuro porpora di un giovane dolcetto renda tale vino eccezionale e superiore ad un pregiato barolo dai toni granati e trama non troppo marcata e giustamente affinato!

Nonostante queste asserzioni di cautela, è comunque vero che un buon vino deve avere un colore “sano”, che non sia maturato prematuramente diventando aranciato o addirittura oltre, a causa di ossidazione. La moderna vinificazione ha sviluppato due metodi per meglio conservare la vivacità e sostenere il colore dei vini rossi. Il primo, molto semplice e pratico, consiste nell’imbottigliarli molto presto, in piena gioventù, permettendo così che una parte significativa del loro affinamento abbia luogo, appunto, in bottiglia, contenitore pressoché impermeabile che protegge i vini dall’ossigeno e dall’ossidazione. Il secondo metodo è la riscoperta dell’importanza del legno, in particolare il legno pulito e sano, onde poter fissare e stabilizzare i pigmenti che sono stati trasferiti al vino dalle bucce delle uve a bacca nera. Parte di tale tendenza, è stata l’uso dei piccoli contenitori, ma anche le botti hanno cominciato a rimpicciolirsi, dai 60-80 ed anche 100 hl. della generazione appena trascorsa, ai 20-30 o 35 ettolitri di oggi ed addirittura all’impiego esasperato delle barriques. Lo scopo primario di tale riduzione è la manifesta evidenziazione di porre una superficie maggiore di vino a diretto contatto col legno.

Le botti sono sostituite ancora relativamente giovani, soprattutto le barriques che dopo al massimo il secondo utilizzo vengono scartate, prima che le sue qualità tonificanti siano del tutto esaurite; inoltre, anche il tempo totale di maturazione ed invecchiamento nelle botti stesse, si è significamene ridotto per evitare uno scambio eccessivo con l’aria esterna attraverso i pori delle doghe. Solo i grandissimi vini sono sottoposti oggi a tanti mesi di botte, 24-30 ed anche oltre, ed a seconda del disciplinare di produzione, situazione che in passato era molto comune. Finora ho trattato soprattutto delle sfumature del giallo paglierino o del rosso rubino di vini giovani, cioè quello che posseggono al momento della loro immissione sul mercato, ma quelli considerati più pregiati, sia bianchi che rossi, sono quelli che hanno la capacità di affinarsi via via che si evolvono in bottiglia. E, così come non tutti i piaceri della vita sono riservati per la gioventù, così i piaceri di una saggia mezza età, energia meno esuberante ma più serena coscienza ed accettazione della propria forza e dei propri limiti, sono quelli dei grandi vini! E i colori si saranno evoluti: un giallo paglierino oro intenso per i bianchi, granato penetrante e cupo per un nobile rosso. Ma una nuova sottigliezza ed affinamento di aroma, una straordinaria rotondità e complessità di gustosità, accompagnano una sfumatura matura ed evoluta che annuncia che questi sono vini con una successione di piaceri del tutto diversa.

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