Non esiste altro contesto dove poter ammirare la forza della vite come l’Isola del Giglio, un mix di condizioni difficili, quasi impossibili perché prenda corpo una coltivazione, superato grazie alla tenacia della pianta da una parte e delle persone, dell’uomo, dall’altra. Tutto questo unito ad una bellezza straordinaria, capace di affascinare e allo stesso tempo di mostrare la difficoltà necessaria a mantenerla.
Ci sono molti modi per scoprire questa terra, così come sicuramente molte piccole isole italiane possono vantare condizioni e bellezza simili, ma quello che rende per me unica l’Isola del Giglio sono le persone, lo stile di vita, la capacità di amare la propria storia e le proprie difficoltà.
E’ facile infatti innamorarsi delle viste mozzafiato a strapiombo sul mare, appassionarsi ad un buon vino fatto con l’uva “ansonaco” (altrove chiamata anche ansonica o inzolia), godere di un bagno in acque meravigliose quando è stagione. Molto più difficile è amare la fatica di scalare le terrazze per la coltivazione dell’uva, i disagi di dipendere da un traghetto e dalle condizioni meteo del mare per raggiungere un altro centro abitato o, infine, la stessa vita fatta di ritmi lenti e simili ogni inverno.
Cercando di farvi scoprire l’Isola del Giglio non posso che partire da un’esperienza bella e difficile allo stesso tempo, accompagnandovi in una visita raccontata alla parte dove la vite cresce meglio (e dalle foto si capisce che si deve dire “meglio” e non “facilmente”), verso sud, attraversando l’abitato di Giglio Castello e proseguendo verso Punta Capel Rosso. A qualche centinaia di metri dal Castello i cellulari cominciano a non prendere più, la natura si fa più selvaggia e la strada costiera diventa una sottile striscia appoggiata ai costoni che scendono verso il mare. Molti, troppi, sono i terrazzamenti ancora visibili e non più mantenuti per motivi vari, ma poi si arriva a oasi meravigliose, lì c’è la vigna di Biagino…poco più avanti quella di Biagio. Oltre gli ottanta il primo, molto più giovane il secondo, gigliesi forti e orgogliosi che mantengono vive allo stesso tempo agricoltura, bellezza e cultura. Oltre a sostenere il territorio.
Nella vigna di Biagio mi colpiscono subito i graticci per l’appassimento dell’ansonaco, un progetto che è il futuro e il passato insieme visto che è un’idea di Giovanni e Simone Rossi, poco più che trentenni ma con le idee chiare. Hanno fondato l’azienda Fontuccia e vogliono rimanere sull’isola a differenza di tanti altri loro coetanei, producendo vino, facendo economia, sperando di creare un futuro lavorativo anche per altri giovani così da far vivere ogni casa tutto l’anno e non solo nei mesi di stagione vacanziera.
Biagio ci accompagna, prima scherza sulla nostra difficoltà di rimanere in piedi tra una roccia e l’altra, quasi a confermare che siamo in qualche modo stranieri e allo stesso tempo sottolineando quanto possa essere difficile lavorarci in quelle terrazze oltre che passeggiarci. Dopo emerge l’orgoglio di chi cura ogni giorno quelle viti e i muretti a secco che mantengono le terrazze, ma anche l’ingegno per evitare per quanto possibile la fatica, l’amore per i resti degli avi, come i palmenti scavati nella roccia, e tanto altro. Biagio ci racconta anche i processi subiti per aver ripristinato alcuni tratti un tempo coltivati e poi abbandonati, pratiche storiche e tradizionali che evidentemente non rientrano nel burocratese di chi scrive le leggi. Persone come lui andrebbero premiate e invece spesso sono osteggiate, in alcuni ambienti si presuppone infatti che la natura debba riappropriarsi di zone in cui non si coltiva più da alcuni anni (una decina se non sbaglio), come se la presenza dell’uomo fosse un incidente di percorso. Idea quantomeno utopica se non addirittura malvagia, visti gli scempi che la cementificazione selvaggia causa ogni giorno in Italia, e dannosa quando si scontra con un’idea di coltivazione tradizionale e armonizzata con il territorio. Nessun mezzo meccanico, se non l’Ape per portare a monte l’uva durante la vendemmia e solo da un certo punto in poi, e tanto tanto sudore, cosa c’è di più ecosostenibile?
La vite qui vince perché è una pianta tenace, curata come in un giardino botanico da uomini altrettanto tenaci, capaci di innamorarsi della fatica. E non è cosa da tutti.
Nato nel mondo del vino ho scelto il giornalismo, la comunicazione, come mia professione e passione principale. Poi, con il tempo e le esperienze, le...
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Inserito da Enzo Zappalà
il 10 dicembre 2011 alle 09:53uva, vino, uomo, fatica, meraviglia, amicizia, condivisione... le uniche parole che si dovrebbero usare parlando di questo straordinario dono della Natura. Fossero tutti come te... altro che santoni e guru...