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Tutti i vitigni italiani suddivisi per regione

Torna all'archivio vitigni


Enantio


E' coltivato soprattutto in Trentino nella Vallagarina dove, insieme al Foja Tonda,
rappresenta uno dei rari casi di vitigno autoctono della zona.
E' vitigno dalla produttività buona e costante. Gli acini hanno buccia sottile e coriacea,
di colore blu-nero, molto pruinosa e raggiungono la piena maturazione verso i
primi di ottobre.


Articolo approfondito
Enantio: ambasciatore della Terra dei Forti

di Paolo Castelletti, Presidente Consorzio Tutela Vini Valdadige DOC "Terradeiforti"


C'era una volta il "Lambrusco a foglia frastagliata" …
Potrebbe essere l'inizio di una vecchia storiella; cerchiamo di capire perché.
Il Lambrusco a foglia frastagliata (meglio conosciuto fra i vignaioli come Lambrusca) è un vitigno coltivato nella Bassa Vallagarina; lo si trova nelle campagne fra Ceraino, Ala ed Avio ed è la varietà base per la produzione del Valdadige rosso d.o.c..
Nel 1991, nell'ambito di un più articolato progetto di riqualificazione del vitigno, la Provincia Autonoma di Trento richiede al Ministero Agricoltura e Foreste l'iscrizione al "Catalogo nazionale delle varietà di vite ad uva da vino" del vitigno "Enantio rosso", fino ad allora denominato Lambrusco a foglia frastagliata; iscrizione che è riconosciuta con Decreto Ministeriale del 31 dicembre 1992.
Operazione di facciata o necessità di rendere il debito onore a un vitigno che nulla ha da spartire con la numerosa famiglia dei Lambruschi? Per dissipare ogni dubbio, penso sia giusto affrontare il problema con il massimo rigore scientifico e spiegare la genesi del vitigno.

La necessità di cambiare il nome al vitigno è colta, già alla fine degli anni '80, come una condizione essenziale per pensare a una politica di rilancio della varietà, peraltro molto presente in tutto l'areale.
Ma andiamo per gradi. La stessa provincia, nel 1985, finanzia un approfondito studio di ricerca, commissionandolo all'Istituto di coltivazioni arboree dell'Università degli studi di Milano; lavoro che ha durata triennale e si conclude nel 1989.
Il risultato della ricerca è codificato in un lavoro che ha per titolo "Le possibili analogie tra il Lambrusco a foglia frastagliata, alcuni vitigni coltivati e le viti selvatiche del Basso Trentino", lavoro che viene di seguito riportato solo per le parti che direttamente ci interessano.


Introduzione

I tentativi di caratterizzazione oggettiva dei vitigni, al fine di giungere alla definizione di precisi "fingerprint" di riconoscimento, si sono concretizzati in questi anni attraverso i metodi dell'analisi biochimica e dell'analisi multivariata (Schneider, 1988). In particolare è stato utilizzato lo studio di alcune macromolecole strettamente legate al controllo genotipico, quali le proteine e di alcuni composti del metabolismo secondario come le sostanze volatili, gli acidi fenolici e gli antociani (Hegnauer, 1961; Turner, 1969; Stace, 1980; Thorne, 1976, 1981; Cronquist, 1980; Kubitski, 1984).
Nelle viti in particolare, il profilo antocianico è stato utilizzato ai fini tassonomici da Ribereay-Gayon et al. (1955), Singleton-Esau (1969), Di Stefano-Corinò (1984), Scienza et al. (1986), quello proteico da Schafer (1969), Drawert-Muller (1973), Wolfe (1976), Feiullat et al. (1979), Boselli et Al. (1986), Cargnello et al. (1988), Bachmann (1989).

I risultati raggiunti da queste ricerche possono, tra l'altro, essere utilizzati negli studi di filogenesi della vite, affrontati fino ad ora, con risultati modesti, attraverso gli strumenti dell'indagine storiografica (Roy-Chevrier, 1900) e ampelografica (Levadoux, 1856).
Uno dei problemi ancora irrisolti riguarda l'origine dei vitigni coltivati e i rapporti di parentela genetica che questi presentano con le viti selvatiche.
Secondo Levadoux (l.c.) i vitigni attualmente coltivati in Europa sono il risultato della pressione glaciale del quaternario, operata verso le zone meridionali del continente. Si sono così formati due centri di diffusione della vite, uno mediterraneo, che ingloba le grandi penisole e le isole del Mediterraneo, l'Asia Minore, il Nord Africa e l'altro caspico, che corrisponde alle regioni montuose comprese tra il Mar Nero e l'India (De Lattin, 1939).
Questa ipotesi modifica in parte quella di Vavilov 1926 (1930) che ipotizzava un solo centro d'origine delle viti, localizzato nella zona del Mar Caspio. Da un punto di vista genetico i vitigni oggi coltivati hanno tratto origine della Vitis vinifera silvestris autoctona, dalla Vitis v. sativa di origine asiatica e da fenomeni di introgressione genica di quest'ultima nella Vitis v. silvestris (Rives 1962). De Lattin (l.c.) distingue, infatti, una vite selvatica di tipo occidentale e mediterraneo, detta silvestre, e una vite selvatica di tipo armeno e sub caspico, detta caucasica, dalla quale provengono gran parte dei vitigni oggi coltivati in Europa.
Levadoux (1954) rifiuta peraltro la distinzione tra Vitis v. sativa e Vitis v. silvestris, da lui ritenute due tappe evolutive di una stessa specie, la Vitis vinifera, la cui evoluzione è iniziata prima in Grecia e nel sud dell'Italia per un'azione antropica più precoce e per le migliori condizioni ambientali.

Per lo stesso autore il Pinot nero, il Cabernet franc, il Riesling e tanti altri sono dei vitigni arcaici o vitigni lambruschi, esempi di una selezione fatta nella Francia settentrionale, partendo da popolazioni selvatiche locali. Da questi tipi sono derivati altri vitigni che costituiscono i cosiddetti gruppi o famiglie geografiche (i Noriens, le Folles, i Cots, ecc.).
In Italia ed in diverse zone europee è stata attestata l'esistenza di popolazioni di vite selvatica: Longo (1921), Franchini (1935), Negri (1937), Scienza (1983; 1985; 1988) Anzani et al. (1989), Levadoux (l.c.) nei Bassi Pirenei, Schumann (1968; 1974) in Renania, Turkovic (1962) in Slovenia e Croazia, Jacop (1978) in Romania, Terpò (1976) nei Carpazi ungheresi, Alleweldt (1956) e Shumann (1977) in Turchia, Logothetis (1962) in Grecia, Negrul(1960) in Georgia e Armenia.
Di viti selvatiche si parla peraltro già diffusamente nei testi antichi.

Teofrasto chiama la vite selvatica Agria ampelos (IV-III sec. a.C.), analogamente a Dioscoride, medico greco del I secolo a.C., che usa lo stesso termine per distinguerla dalla Oenophoros ampelos, la vite coltivata. Virgilio nelle "Ecloghe" e Plinio il Vecchio nella sua "Naturalis historia" usano per primi il nome Lambrusca per denominare la vite selvatica. Altri autori usano questo termine, che secondo il Sereni (1981) è di origine paleoligure, per distinguere le viti selvatiche da quelle coltivate. Tra questi si possono citare Pier Crescenzi (1495), Soderini (1622), Villifranchi (1773), Mendola (1868), Incisa (1864), Di Rovasenda (1877).

Che la Vitis v. silvestris sia di origine molto antica e appartenente alla flora spontanea europea e non sia, come qualcuno afferma, un'espressione delle viti selvatiche postcolturali o subspontanee, lo dimostra anche l'etimologia del termine labrusca (o lambrusca) che con la formante paleoligure in - sca o - usca e il sostrato mediterraneo lapis, che colloca la sua origine non solo in epoca prelatina ma addirittura anteriore alla colonizzazione etrusca e alla dominazione dei Celti.
Tale vocabolo si ritrova, infatti, sia nelle parlate italiane, provenzali e francesi che nel catalano llambrusca e nel rumeno laurusca. Inoltre la presenza della Vitis v. silvestris è precedente a quella della Vitis v. sativa. Infatti i reperti di vinaccioli raccolti nelle palafitte e nelle terra-mare di alcune stazioni preistoriche italiane, risalenti all'età del bronzo, appartengono alla Vitis v. silvestris, mentre i semi della Vitis v. sativa compaiono più tardi, nel corso dell'età del ferro.
Vi sono inoltre numerose diversità morfologiche e di comportamento che fanno escludere l'origine della Vitis v. silvestris dall'inselvaticamento della Vitis v. sativa, tra le quali la più nota, è la dioicia.

Particolare attenzione ai fini dell'apporto della vite selvatica al patrimonio viticolo attuale va riservata al valore semantico assunto da alcuni continuatori del termine labrusca e cioè non più quello di vite selvatica ma invece di particolare varietà di vitigno coltivato con il nome di lambrusco. Non è facile risalire, in base alle attuali conoscenze, a quando è avvenuta la generalizzazione del termine lambrusco alle viti coltivate. Dalle rassegne bibliografiche della prima metà dell'800 appare che la coltura dei Lambruschi era confinata in un'area limitata ad alcuni settori del Piemonte (Crouet), della Lombardia (uà ssalvadega), del Veneto (oselina), dell'Emilia e della Toscana (abrostino, raverusto).
Con questi termini si designavano un gruppo di vitigni, talvolta anche tra di loro molto diversi ma che avevano in comune la rusticità, il viraggio al rosso delle foglie in autunno, gli acini radi, più o meno piccoli ma molto colorati. I vini che originavano erano piuttosto aspri e le piante presentavano un portamento vegetativo che doveva essere assecondato da forme di allevamento espanse, come ad esempio quelle offerte dai tutori vivi (Sereni, l.c.). La prima distinzione tra i diversi Lambruschi è dell'Acerbi (e.c.).
A conferma della genericità del termine lambrusco nella designazione di una varietà, si ricorda che Molon (1906) elenca e descrive 56 lambruschi, distinti tra loro per luogo di provenienza o di coltivazione, per persone o famiglie che ne avevano operato la domesticazione o per alcune caratteristiche del grappolo o delle foglie.

L'origine geografica di questi Lambruschi è molto varia: Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, Emilia, Toscana. Sono considerati sinonimi di Lambrusco i termini: Ambrusca, Lambruschetta, Lambruscone, Abrostola, Lambruschino, Abrostine, Raverusti, Vaseline, Tirodola, Uva colore, Croetto, Grappelli, ecc..
Nelle diverse raccolte ampelografiche alle quali aveva attinto il Molon (l.c.) non è mai citato però il Lambrusco a foglia frastagliata.
Cosmo et al. (1952-1960) nella descrizione ampelografica di questo vitigno ipotizzano una sua origine emiliana, ma affermano anche che questa varietà non è mai stata riscontrata o coltivata in quella regione. Del Pero (1981) ritiene che questo vitigno fosse presente nei comuni di Avio e Ala fino dal 1800 con il nome di Lambrostega o Nostrana e che era apprezzato per la sua rusticità e resistenza ai freddi invernali. Dalla sua vinificazione si ottenevano dei vini rossi e rosati molto apprezzati anche all'estero, come dimostra l'esportazione verso l'Austria di 4000-5000Hl/anno, favorita dall'apertura del valico del Brennero ai trasporti per ferrovia, avvenuta nel 1865.
La forma di allevamento di allora era la piantata con tutore vivo, tipica espressione di una viticoltura promiscua.
Le prime analisi di mosti e di vini documentabili, risalenti al 1922, confermano le buone caratteristiche qualitative del vino di questo vitigno, riassumibili nelle gradazioni alcoliche elevate, accompagnate da una buona acidità e colore intenso.


Materiale e metodo

L'indagine riguarda il confronto fra il Lambrusco a foglia frastagliata e alcuni vitigni scelti in base a criteri di carattere storiografico o per origine geografica (AA.VV., 1980) o per caratteristiche morfologiche.
Da sottolineare che il confronto è avvenuto anche con viti selvatiche individuate sin dal 1984 sul lato destro e sinistro dell'Adige, nella valle dell'Aviana (Avio) e in loc. Vallarom (fra Masi e il Vò). I siti dove sono state localizzate le viti selvatiche sono compresi in una fascia altimetrica di 300-600 m. s.l.m.; la descrizione delle viti è riportata in Angari et al. (1989).

I vitigni utilizzati per il confronto con il Lambrusco a foglia frastagliata sono stati i seguenti: Barbera, Cabrusina, Casetta, Ciliegiolo, Corvina, Demela, Dindarella, Groppello, Lagrein, Lambrusco di Alessandria, Lambrusco grasparossa, Lambrusco Maestri, Lambrusco Marani, Lambrusco Oliva, Lambrusco salamino, Lambrusco di Sorbara, Marzemino, Molinara, Moscato rosa, Nebbiolo, Negrara, Oseleta, Oselina, Pelara, Pormela, Quaiara, Rondinella, Rossara, Rosetta di montagna, Rossignola, Schiava gentile, Schiava grossa, Simesara, Teroldego, Trollinger.

Il lavoro si è svolto attraverso indagini fillometriche e carpologiche, analisi del profilo antocianico e l'analisi del profilo elettroforetico delle proteine dell'endosperma di vinacciolo; indagini che per brevità non sono riportate.


Conclusioni

Le tecniche di riconoscimento e di classificazione varietale, riconducibili all'ampelografia descrittiva e all'analisi biochimica sono apparse molto efficaci per studiare il grado di similarità tra i vitigni indagati. L'analisi della varianza applicata a 13 indici fillometrici e carpologici ha consentito una buona differenziazione tra i vitigni.
Gli indici più importanti sono risultati essere la dimensione della foglia, la lobatura, l'ampiezza del seno peziolare (coefficiente d'allungamento inferiore) e il rapporto larghezza/lunghezza.
Attraverso l'analisi discriminante si è potuto così classificare correttamente il 97% delle foglie nell'attribuzione ai rispettivi vitigni. In particolare hanno presentato indici fillometrici molto caratteristici il Lambrusco a foglia frastagliata, il Lambrusco grasparossa, la Rondinella e il Bombino.
Per la morfologia fogliare il Lambrusco a foglia frastagliata e il Lambrusco grasparossa si differenziano notevolmente dagli altri Lambruschi. Il primo per il parametro "lobatura" ed il secondo per il parametro "forma".

L'analisi a grappolo ha suddiviso i vitigni considerati in due gruppi, in base alla forma e alla lobatura delle foglie. Manifestano un elevato grado di similarità per quanto riguarda la forma della foglia le viti selvatiche, il Groppello, il Bombino, la Rondinella da una parte e dall'altra i Lambruschi e il Ciliegiolo, mentre per la lobatura il Lambrusco a foglia frastagliata, la Rondinella e il Bombino rispettivamente nei confronti del Nebbiolo, Groppello e le viti selvatiche del Nord Italia e i Lambruschi, il Ciliegiolo e la vite selvatica del Centro e del Sud Italia. Analogamente si è potuto suddividere i vitigni identificati in quattro gruppi principali attraverso la morfologia dei vinaccioli. La coppia più simile per i caratteri "larghezza" e rapporto "lunghezza/larghezza" sono apparsi il Teroldego e il Ciliegiolo, mentre all'interno del gruppo dei Lambruschi la forma del seme ha evidenziato una notevole eterogeneità.

I metodi biochimici (analisi del profilo antocianico delle bucce ed elettroforetico delle proteine) applicati su una popolazione di vitigni più ampia e non sempre coincidente con quella utilizzata per le misure fillometriche e carpometriche, hanno evidenziatola peculiarità del comportamento del Lambrusco a foglia frastagliata nei confronti sia nei Lambruschi emiliani che dei vitigni trentini (Marzemino, Teroldego, Lagrein) che invece sono compresi in un unico raggruppamento veneto-padano. Appare invece evidente la somiglianza di questo vitigno della Vallagarina con alcuni vecchi vitigni veronesi quale la Rossetta di montagna e la Forcellina, reperiti nella Valle dell'Adige in località molto vicine geograficamente al Basso Trentino, quali Rivoli Veronese, Affi, Cavaion. Una buona analogia, inoltre, è stata verificata con le analisi delle sequenze enzimatiche tra il Lambrusco a foglia frastagliata, la Dindarella, la Rondinella e le viti selvatiche trovate ad Avio.

Sebbene non sia facile trarre delle conclusioni definitive su un argomento di grande complessità qual è quello della filogenesi, attraverso gradi di approssimazione al problema crescenti, passando dall'indagine fillo-carpometrica a quella biochimica, è possibile evidenziare una notevole coincidenza nei risultati ottenuti dai diversi metodi di indagine, relativamente alla non appartenenza del Lambrusco a foglia frastagliata al gruppo dei Lambruschi emiliani, ai quali invece appaiono molto simili altri vitigni trentini quali il Marzemino, il Teroldego e Lagrein. Per contro una grande analogia sia morfologica che biochimica presenta il Lambrusco a foglia frastagliata con alcuni vecchi vitigni veronesi, non più in coltura e con le viti selvatiche trovate allo stato spontaneo nei dintorni di Avio. Ciò consente di affermare che il Lambrusco a foglia frastagliata è verosimilmente un vitigno autoctono della Bassa Valle dell'Adige e appartiene geneticamente a un gruppo di vitigni originari delle morene glaciali che si trovano a cavallo della depressione del Lago di Garda e del solco vallivo dell'Adige, con forti legami filogenetici con le viti selvatiche nella Valle dell'Aviana e del Vallarom, nel comune di Avio. Nessun grado di parentela è invece dimostrabile con i Lambruschi emiliani e con gli altri vitigni trentini saggiati, quali il Teroldego, il Lagrein ed il Marzemino.

La ricerca suesposta chiarisce in maniera inequivocabile che il Lambrusco a foglia frastagliata non è ascrivibile alla famiglia dei Lambruschi emiliani, ma che invece è senza dubbio un vitigno autoctono della Vallagarina. Lo studio ha quindi permesso, nel 1992, di cambiare il nome di questa preistorica varietà. Ma allora come si è arrivati al termine Enantio?
Le ricerche storiche ci dicono che già Dioscoride cita l'Oenanthè, cioè una pianta di vite da fiore; si trattava della Vitis silvestris a fiori maschili e quindi non produttiva.
Plinio, storico romano del I° secolo d.c., chiarì che esisteva anche l'Oenanthè fert o Vocatur oenanthium a fiori femminili e perciò fertili, uviferi. Nella sua "Naturalis historia" parlando di viti selvatiche e coltivate, scriveva: "Labrusca hoc est vite silvestris, quod vocatur oenanthium", ovvero una vite selvatica chiamata Enantio. Bacci, nella sua "Storia naturale dei vini", edita a Roma nel 1560 (vol. VI), parlando dei vini ottenuti in Vallagarina, affermava che in queste terre veniva prodotta l'uva lambrusca, dalla quale derivano i vini enantini. Di qui, quindi, l'idea di ribattezzare il nostro vitigno autoctono per eccellenza con il nome di Enantio.

Al centro della nuova politica vitienologica e di sviluppo territorio intrapresa dal Consorzio di Tutela Vini "Terra dei Forti", l'Enantio gioca un ruolo fondamentale, proprio perché rappresenta la diversità che ci permettere di caratterizzare il nostro territorio, di comunicare un qualcosa di nuovo e di importante, di unico, che nessuno ci può sottrarre. In questo senso l'Enantio deve assumere la funzione di "medium", in grado di comunicare non solo cultura materiale, tradizione, emozione, sapori, profumi, ma anche di generare valore nel territorio, innescando addirittura inattesi germi di imprenditorialità.
Una particolarità, l'Enantio, che, attraverso un più ampio progetto di valorizzazione territoriale, è in grado di attirare il visitatore e i media, distribuendo nuova ricchezza in Terra dei Forti; l'Enantio, quale "medium" (ovvero giacimento) può illuminare un territorio, rendendolo visibile e visitabile al turista.
Nel nuovo scenario emergente, il cibo ormai trascende la gola e il palato. La riscoperta delle radici, l'interesse per la zona di provenienza, la sensibilità per gli aspetti antropologici, il desiderio di conoscere la storia, la dimensione estetico-sensoriale si sommano e vanno ad interferire con la gratificazione orale nell'apprezzamento del vino e di tutti i prodotti tipici.

Il futuro del turismo anche in Terra dei Forti è di perseguire la "salvaguardia delle specificità", di cui il vino è uno degli elementi cardine; il turista, infatti, attraverso un'offerta enogastronomia territoriale può compiere un passo decisivo fuori della sua appartenenza, stabilendo relazioni e avviando comparazioni culturali all'interno delle comunità con cui entra in contatto.
Il vino, la cucina e l'alimentazione appaiono come i terreni sui quali si gioca il conflitto più generale tra la dimensione globale e quella locale.
A noi la capacità di saper cogliere questa nuova opportunità!


Paolo Castelletti




Bibliografia:
- "Le possibili analogie tra il Lambrusco a foglia frastagliata , alcuni vitigni coltivati e le viti selvatiche del basso trentino" di A. Scienza, O. Failla, R. Anzani, F. Mattivi, P.L. Villa, E. Gianazza, G. Tedesco, U. Benetti.
- "Naturalis histroria" di G. Plinio Secondo, detto "il Vecchio".
- "Stroria naturale dei vini" di A. Bacci.
- "Origini della vite e della viticoltura" di M. Fregoni.
- " Le popolazioni selvatiche e coltivate di Vitis vinifera L." di L. Levadoux.
- "Le viti spontanee in Vallagarina" di A. Scienza, O. Failla, R. Anzani.
- "I luoghi del gusto" di D. Paolini.