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          Valli Giudicarie 
          di Gianluca Ricci

          Sono state per secoli una terra difficile, le Valli Giudicarie: quando sciare 
          era una necessità prima ancora che un'industria come oggi, in quell'ampio 
          lembo di Trentino era l'orgoglio a trasformare la povertà in semplicità.
          Ma ciò di cui un tempo i valligiani un po' si vergognavano si è lentamente 
          trasformato in una peculiarità rara, e per questo assai ricercata.
          E se la gastronomia va considerata lo specchio fedele della storia di un popolo, 
          non c'è da stupirsi se è "semplicità" la parola d'ordine per capire e apprezzare 
          ciò che da quelle parti si continua a fare con passione e competenza immutate. 

          Non si spiegherebbe altrimenti il motivo per cui il simbolo gastronomico giudicariese 
          sia all'unanimità considerato la polenta: è vero che le ultime tendenze l'hanno 
          fortemente rivalutata, anche se più per la sua efficacia simbolica che per 
          l'effettiva versatilità in cucina. 
          Fatto sta che lassù parlare della "polenta di Storo" può diventare la chiave che 
          apre molte porte: essa nasce dalla macinatura di una varietà locale di mais, 
          simile al Marano vicentino, un tempo di limitata produzione e oggi assurta a 
          prodotto di punta della Valle del Chiese, di cui Storo costituisce il centro più 
          significativo. 
          Il segreto del suo incondondibile sapore pare sia dovuto alla particolare essiccatura 
          delle pannocchie, raccolte i primi giorni di ottobre e poi esposte ai venti secchi 
          provenienti dai monti circostanti, e alla macinatura, che conserva una grana così 
          grossolana che non si fatica a confonderla, una volta servita in tavola, con la 
          polenta integrale.
Passando da quelle parti non ci si può dunque esimere dall'avvicinarsi ad uno dei piatti che maggiormente esaltano le potenzialità di tale prodotto, vale a dire la "polenta carbonera": nel pieno rispetto della cerimonia di preparazione di quello che gli chef di grido chiamano "patè di mais", giusto per non vergognarsi di portare in tavola della "volgare" polenta, si aggiungono nel paiolo, oltre l'acqua, tre tipi differenti di formaggio, due a pasta dura e uno poco stagionato, salame, cipolla, sale, pepe e burro in quantità. Basta una piccola fetta per saziarsi, come conveniva cent'anni fa: un concentrato di gusto, insomma, assolutamente imperdibile anche ai nostri giorni.
Salumi e formaggi sono comunque il companatico più indicato per raccogliersi in adorazione intorno ad essa.
          E proprio salumi e formaggi, non a caso, sono diventati i gioielli gastronomici 
          più preziosi di quella terra: per godere del meglio dei primi è però necessario 
          trasferirsi in Val Rendena, nella Giudicarie Esteriori per apprezzare i secondi. 
          Le "ciuìghe" nacquero infatti per soddisfare i bisogni delle famiglie povere che un 
          tempo, per pagare i loro debiti alle cooperative di vendita dei prodotti alimentari, 
          allevavano un maiale all'anno e ne vendevano i pezzi pregiati; ai proporietari 
          rimanevano testa, frattaglie, sangue e interiora, con cui confezionavano, allora 
          come oggi, quelle particolari salsicce, addomesticandone il sapore con rape rosse, 
          ovviamente ben tritate e asciugate all'aria per qualche giorno. 
          Il risultato, soprattutto in abbinamento con polenta e crauti, è di grande effetto, 
          come di grande effetto sono pure la pancetta all'aglio o le salamelle, sempre
          all'aglio e sempre di Caderzone. 

          E tra un assaggio e l'altro si potrà attingere a piene mani alle bellezze naturalistiche 
          e architettoniche di una valle che ha in Madonna di Campiglio la punta di diamante 
          dell'offerta turistica rendenese. 
          Prima però meglio fare una sosta tattica a Spiazzo, che ospita sì la chiesa di 
          San Vigilio, affrescata da Simone Baschenis, ma anche e soprattutto il ristorante 
          "Mezzosoldo" (loc. Mortaso, tel. 0465/801067), specializzato nella trasformazione 
          delle ricette locali improntate alla semplicità in piatti di grande cucina: provare 
          lo strudel con spressa, patate e bagiane e il filetto di maiale con cumino, 
          cappuccio e miele per convincersene. 
          Non va ignorata nemmeno Carisolo, punto di partenza ideale per i meravigliosi 
          sentieri della valle di Genova che proprio da lì si inerpica verso il Brenta fino 
          ad incrociare le incredibili cascate del Nardis, cento metri di forza, spettacolo 
          e stupore. 

          

          Campo-base per un week-end in zona potrebbe essere però Pinzolo, impreziosita 
          dalla presenza della straordinaria chiesa di San Vigilio sulla quale lo stesso 
          Baschenis diede il meglio di sé dipingendo una superba "danza macabra", 
          capolavoro incontrastato della pittura rinascimentale del nord Italia. 
          Al di là dei chilometri di piste a disposizione dello sciatore provetto come del 
          principiante, Pinzolo è comunque il punto di riferimento per chi ama i formaggi, 
          quelli di montagna in particolare. 
          E' la "Spressa" il prodotto più rinomato, un formaggio tra i più antichi della 
          montagna alpina, frutto di un'arte casearia artigianale i cui principi non sono 
          stati abbandonati nemmeno oggi che l'industrializzazione è avanzata a grandi 
          passi anche in questo settore. Si tratta di un formaggio a basso tenore lipidico, 
          ma non magro: il suo inconfondibile sapore è legato soprattutto alle razze bovine da 
          cui proviene il latte, costituite nella quasi totalità dalla locale "Rendena", e dal 
          foraggio con cui sono alimentate, senza contare il particolare clima in cui questo 
          prodotto ha la fortuna di nascere.
          Gran parte della produzione, garantita dal marchio Dop, è legata all'attività del 
          Caseificio Sociale di Pinzolo a Fiavé (0465/735004), a cui si debbono altre perle 
          casearie come il Dolomiti di Brenta, dolce da tavola dalla stagionatura non 
          superiore ai 4 mesi, o il Fontal Fiavé, saporito a pasta dolce assai diffuso da 
          quelle parti. 

          Ma la produzione casearia non è limitata al latte vaccino né ai prodotti 
          "industriali": proprio nelle giudicarie Esteriori c'è ancora chi, sacrificando spesso 
          le logiche del facile guadagno con il rispetto delle tradizioni degli avi, insiste nel 
          governare gli animali secondo natura e nel produrre formaggi che esaltano al 
          palato sapori ormai dimenticati.
          Nei pressi di Fiavé, tanto per fare un esempio, Natale Iori (Bivedo, tel. 0465/779761) 
          si è incaponito nel voler tramandare l'antica arte del formaggio caprino: cento 
          bestie, le sue, in assoluta libertà e una ricotta di quelle che non si assaggiano 
          più tanto facilmente. Ma Fiavè, punto di riferimento anche per coloro che amano 
          storia e natura, visto che nella torbiera appena fuori paese si trova un villaggio 
          palafitticolo di grande interesse archeologico, si propone all'attenzione dei turisti 
          del gusto anche per la prelibatezza delle sue noci (le famose noci bleggiane) e 
          delle sue patate, le patate Lomaso, prodotti di una cucina povera ma, grazie ai 
          suoi sapori forti, assolutamente esaltante. 
          I nuovi gestori del ristorante "Da Silvana", per esempio (via Roma 6 a Santa 
          Croce del Bleggio - tel. 0465/779997), hanno cercato di valorizzarli al meglio: 
          sella di coniglio ripiena con verza e noci, capriolo in concia di Teroldego e ginepro 
          e torta di noci sono quanto di meglio offra la tradizione locale per comprendere 
          fino in fondo la filosofia culinaria di quella terra. 
          Il segreto (verificare alla Copag di Lomaso: tel. 0465/701793) sta ovviamente 
          nella qualità delle materie prime, ancora oggi lavorate secondo il retaggio di un'agricoltura 
          di sussistenza che garantisce meglio di qualsiasi sentenza di tribunale i processi 
          evolutivi del prodotto: se le noci sono così buone è perché vengono raccolte a 
          mano e fatte essiccare nelle soffitte delle vecchie case intorno ai 600 metri di quota; 
          se le patate mantengono quel sapore così caratteristico è perché i contadini si 
          concentrano sul come e non sul quanto. 

          Buon per tutti che qualche ristoratore della zona ha capito che puntare sul prodotto
          indigeno e sulla tradizione a volte anche secolare può diventare, oltre che un 
          business niente male, un sistema per opporsi ad oltranza alla globalizzazione dei sapori. 
          Era già tutto lì: bastava accorgersene.