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Notizie e comunicati stampa dal mondo del vino

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Resoconto Forum sui Vitigni Autoctoni
Si è svolto il 14 aprile, nella sala G. Siani del quotidiano IL MATTINO, un forum dal titolo "Enologia e vitigni autoctoni: nuova frontiera o ritorno passato?".

L'organizzazione, curata dalla stessa testata giornalistica nazionale e dagli organizzatori di "Vitigno Italia", il primo salone dei vini da vitigno autoctono e tradizionale italiano che si svolgerà il 3-4-5 giugno alla mostra d'Oltremare di Napoli, ha voluto evidenziare una delle tematiche più salienti del momento sull'enologia italiana. Al Forum ha partecipato anche il presidente di Vitigno Italia, Chicco de Pasquale, mentre ha moderato l'incontro il giornalista Luciano Pignataro. Presenti anche istituzioni, giornalisti e produttori vinicoli.

Questi i cinque enologi, tra i migliori del d' Italia, che hanno aderito al forum in qualità di relatori:

ANGELO VALENTINI,
enologo-agronomo umbro, ricercatore enobibliofilo premiato con il riconoscimento "Bancarel vino" per il libro "Percorsi di vini", edito da quattroemme editore, ha tra i suoi trascorsi nel mondo del vino anche il merito, in qualità di consigliere nazionale, nel 1980 di aver nominato il papa Giovanni Paolo II sommelier onorario. La posta svizzera, quattro anni fa, emise un annullo postale con un francobollo che lo ritraeva insieme al papa Giovanni Paolo II.

CARLO FERRINI,
toscano di nascita, enologo ed agronomo laureato alla Facoltà di Scienze Agrarie dell'Università degli Studi di Firenze, "Accademico della vite e del vino" e vincitore del premio "Enologo dell'anno 2000" per Gambero Rosso.

FRANCO GIACOSA,
enologo piemontese di fama internazionale, "Accademico della vite e del vino"e "Accademico della cucina italiana", vincitore di numerosi premi tra i quali il "Michelangelo International Wine Award"di Johannesburg.

LORENZO LANDI,
enologo toscano, dottore in Scienze agrarie presso l'Università degli Studi di Pisa, si specializza con un master in Enologia presso l'Università Cattolica di Roma e consegue il diploma universitario in Viticoltura ed Enologia presso l'Università degli Studi di Pisa.

LUIGI MOIO,
enologo campano, laureato alla Facoltà di Scienze Agrarie dell'Università degli Studi di Napoli Federico II e professore ordinario di Enologia al Dipartimento di Scienze degli Alimenti presso la Facoltà di Agraria dell'Università degli Studi di Foggia.

CHICCO DE PASQUALE
Presidente di Vitigno Italia, il primo salone del vino da vitigni autoctoni e tradizionali in programma a Napoli dal 3 al 5 giugno 2005

%


Questo l'estratto degli interventi del Forum durato un'ora e quarantacinque minuti.


Chicco De Pasquale. Questo confronto anticipa Vitigno Italia in programma dal 3 al 5 giugno. I riscontri alla nostra iniziativa sono buoni perché abbiamo costruito un salone specializzato, tematico anziché tentare una avventura generalista. Sinora abbiamo avuto già 250 adesioni.

Il Mattino. Partiamo anzitutto dalla definizione teorica. Cosa vuol dire vitigno autoctono e perché ognuno intende qualcosa di diverso dall'altro quando si usa questa espressione?
Ferrini. Il tema è complesso e difficile, in questi ultimi tempi se ne stanno dicendo di tutti i colori. Ci sono uve importanti con le quali si possono fare vini importanti in tutte le regioni e territori caratterizzati dalla presenza di un vitigno in particolare. L'importante è partire dal progetto aziendale. Mi chiedo, ad esempio, qual è il vitigno autoctono di Bolgheri, il cabernet sauvignon?

Giacosa. Effettivamente il termine autoctono non è appropriato, più che altro è una parola semplice e comprensibile. Io credo che un vitigno possa essere considerato autoctono quando è tradizionalmente legato al territorio.

Landi. Io penso che un vitigno sia autoctono quando è stato modificato nel corso della sua coltivazione in un territorio, a tal punto da aver maturato caratteristiche diverse.

Moio. Devo dire che non mi è mai piaciuta la definizione di autoctono, anche perché non significa sempre buono. Anzi, quando ci si dedica alle uve locali dobbiamo dire che si corrono molti rischi, si lavora in una situazione di sperimentazione permanente. Il punto è, avendo la bordolesizzazione come parametro, queste uve consentono di fare vini secondo questo modello o no? Alcuni, come il grignolino o il nerello mascalese non hanno antociani a sufficienza e dunque, vale la pena di lavorarci? Per me è autoctono quando c'è identità varietale su una identità territoriale.

Valentini. Sono contento che proprio a Napoli si parli di questo argomento visto che da qui sono passate tutte le uve che si coltivano nel mondo. Io darei una definizione più generale, i vini somigliano agli uomini che li fanno. Gli autoctoni sono stati distrutti dalla fillossera e sostituiti da uve più produttive. Ora si avverte nuovamente il bisogno di tornare all'identità perché non c'è più una esigenza nutrizionale ma culturale.
Il Mattino. Questo intervento ci porta al secondo aspetto della questione, al segreto del successo dei vitigni internazionali, più facili da coltivare e più produttivi.

Ferrini. Sì, partiamo dalla vigna e dai fattori che la influenzano come il terreno, l'altitudine, la piovosità. In Francia c'è il modello bordolese dove si è adattato un blend al terroir e quello di Borgona, dove tutto è stato puntato esclusivamente sul Pinot nero. In Italia stiamo appena iniziando a studiare, sinora un lavoro scientifico e completo è stato fatto solo nella zona del Chianti con la clonazione. Sinora si è proceduto un po' a naso. Il problema vero è studiare, in ogni azienda, la soluzione migliore per ottenere qualità, e alla luce del risultato ci si confronta con il mercato.

Giacosa. Il problema vero è proprio capire il vitigno, in Francia ci sono 200 anni di storia. Per recuperare il ritardo da questo punto di vista bisogna studiare i cloni e, di conseguenza, i sistemi di allevamento per ovviare ai problemi che sorgono. Io credo che ogni uva autoctona sia una grande risorsa, una fonte di biodiversità. Bisogna selezionare, lavorare bene, capire. I vitigni internazionali sono buoni per fare grandi vini e sono stati importanti in passato, quando l'Italia non esisteva nel mondo vitivinicolo di qualità. Ora siamo in una fase diversa, nuova. La Toscana è un ottimo esempio.
Landi. Il vitigno internazionale è sempre uguale, è più facile prendere le misure. Per affrontare gli autoctoni bisogna studiare i cloni, molto materiale genetico è andato perso, ma siamo ancora in tempo per recuperare. Sinora abbiamo selezionato poco perché noi italiani siamo partiti in ritardo, non abbiamo tradizione.

Moio. Infatti il problema di fondo degli autoctoni è legato alla conoscenza. Cabernet, Chardonnay, Merlot e altri internazionali sono studiati da decenni in tutto il mondo, per raggiungere un buon livello di comprensione sul comportamento delle uve tipiche bisogna aspettare e lavorare. Dobbiamo però dire che non siamo all'anno zero, ci sono autoctoni importanti e affermati, nel Sud penso all'aglianico e alla falanghina, i cui comportamenti ormai sono stati ben sviscerati. Il problema è individuare la caratteristica varietale, quella riconoscibilità sempre uguale nel tempo e nelle aziende proprio così come è stato fatto in Francia.

Ferrini. Questo è un punto importante. La sensorialità del vitigno, dell'azienda, deve essere costruita nel tempo, a volte nell'arco di più generazioni. Questo fa la differenza. Il cammino da percorrere è questo qui, in Italia la viticoltura è giovanissima.
Valentini. Io penso che noi italiani dobbiamo soprattutto recuperare la tradizione invece di parlare sempre della Francia. Quando ci hanno impedito di chiamare il nostro spumante Champagne, abbiamo coniato un termine che vuol dire tutto e niente, metodo classico. Io avevo suggerito, per esempio, metodo benedettino. Quando conferii il titolo di sommelier onorario al Papa mi sentii dire dal Pontefice: ma perché usate un termine francese. La riconoscibilità sensoriale è importante, ma lo è anche recuperare il tempo perduto con l'orgoglio.

Il Mattino. Qui abbiamo due bottiglie particolari. Un Tintilia molisano, piccolo vitigno autoctono da poco vinificato in purezza, e un Sinatra comparato a New York fatto con cabernet sauvignon, cabernet franc e merlot. C'è anche il vino Maradona. Quale di questi due è il modello del futuro?
Ferrini. Difficile fare previsioni. Quindici anni fa si pensava che il mercato si sarebbe orientato verso il bianco, cinque anni fa verso i grandi vini rossi. E ci troviamo invasi nel mondo dalla formula una bottiglia, un dollaro. Certo, stiamo pagando errori del passato, esagerazioni fatte nel corso della crescita. In realtà la viticoltura nel nostro paese ha svoltato nel 1980. Io penso che la ricetta sia migliorare la qualità del prodotto perché indietro non si torna e tenere i costi bassi.

Giacosa. L'Italia produce 50 milioni di ettolitri. Prima il Nuovo Mondo non ci dava proprio fastidio, adesso lo scenario è cambiato completamente. Noi italiani, visti i costi e la concorrenza, ci dobbiamo posizionare sui segmenti più alti con vini di territorio a costi contenuti. Sono d'accordo con il fatto che scontiamo gli errori del passato recente, adesso dobbiamo intrigare il consumatore, comunicare bene, puntare sul costante allargamento di qualità.

Landi. Sono d'accordo con Giacosa. Noi italiani dobbiamo sfruttare la peculiarità del prodotto, la diversificazione del territorio e in questo momento quella del vitigno autoctono mi sembra l'unica strategia commerciale vincente.

Moio. Gli autoctoni possono essere la nuova frontiera. Io non do la colpa a nessuno, alcune scorciatoie del recente passato andavano comunque percorse, la strada è far sì che ogni territorio riesca ad esprimere la sua identità. Questo è più facile se c'è il vitigno autoctono.

Valentini. Sforziamo la fantasia, come quando lanciammo il Carmignano per differenziarci dal Chianti. Penso che il mercato oggi sia fatto dai giovani. In questo i francesi fanno scuola, a volte la loro bottiglia vale più del vino che contiene.