Haka !
di Riccardo Modesti
Ka mate! Ka mate!
Ka ora! Ka ora!
Ka mate! Ka mate!
Ka ora! Ka ora!
Tenei Te Tangata Puhuru huru
Nana nei i tiki mai
Whakawhiti te ra
A upa... ne, ka upa... ne
A Upane, Kaupane, Whiti te ra!!
L'Haka è una forma di danza tradizionale dei Maori della Nuova Zelanda,
eseguita da un gruppo di persone e solitamente accompagnata da parole
urlate: un tipo particolare di Haka è famosa in tutto il mondo, ed è quella
eseguita dagli All Blacks di Rugby a 15 prima di ogni match, della quale
ho riportato in apertura il testo in lingua originale. Uno spettacolo
che fa venire i brividi, forse pari - parlo agli amanti della palla ovale
ovviamente - a "Flower of Scotland" cantata dal pubblico di Edimburgo
prima della partita della rappresentativa scozzese. Siamo dunque tornati
in Nuova Zelanda, terra che ho nel cuore pur non essendoci mai stato,
e che senza grandi fanfare sta mettendo in campo una viticoltura ancora
a dimensioni gestibili, organizzata, e che si sta facendo valere un po'
in tutto il mondo.
L'aspetto interessante, e che fa da contraltare ai cugini australiani,
è che il vino neozelandese punta diritto alla redditività a ogni costo,
tralasciando qualunque tentazione ribassista. Vedremo nel corso di questo
articolo le novità in cantiere, le iniziative e l'andamento della produzione
della viticoltura nella terra dei kiwi, sfruttando come al solito l'eccellente
messe di documentazione messa a disposizione da www.nzwine.com,
un sito web davvero esemplare per funzionalità, contenuto informativo
e impostazione grafica.
Piccolo è bello
543 wineries sono in fondo un numero piccolo e facilmente gestibile in
maniera organizzata a livello nazionale: forse la chiave di tutto il discorso
sta in questa semplice considerazione. Il numero di aziende è in crescita
di poco più di una decina di unità rispetto al 2006, quando erano 530,
mentre la superficie vitata è aumentata fino a 24.660 ettari (valore stimato),
rispetto ai 22.616 del 2006. La produzione in ettolitri ammonta a 1,47
milioni, altro dato in aumento rispetto agli 1,33 milioni del 2006. Stabili
i consumi interni pro capite, a quota 12,2 litri, mentre sul fronte delle
esportazioni la crescita, sia in termini di quantità che di valore, è
decisamente interessante: si è passati così dai 0,57 milioni di ettolitri
del 2006, per un valore di 512,4 milioni di NZ$, ai 0,76 milioni di ettolitri
del 2007, per un valore di 698,3 milioni di NZ$. Sull'export torneremo
comunque in seguito. Oltre alla winery esiste ovviamente la figura del
"grape grower", ovvero di colui che si limita a coltivare il vigneto e
vendere l'uva, il cui numero è quasi raddoppiato nel giro di cinque anni,
fino a superare di poco il migliaio.
Cosa succede in città
La vendemmia 2007 ha avuto un decorso da manuale nel periodo della maturazione,
per cui ci si attende grande qualità nei vini prodotti. Il freddo che
ha colpito alcune regioni al momento della fioritura ne ha comunque diminuito
significativamente la produzione: l'orientamento nord-sud delle due isole,
del resto, espone i vigneti più vicini all'Antartide alla sua influenza,
il che può significare freddo (e che freddo) in ogni momento. Come amo
ricordare, è l'isola meridionale quella coinvolta nella vicenda, e di
regioni che si chiamano Central Otago, Canterbury, Wairarapa, Nelson.
Anche Marlborough, forse quella più celebre "across the world" per i suoi
esplosivi Sauvignon blanc, è nell'isola meridionale, ma il suo destino
è stato più fortunato e la produzione è pure leggermente aumentata. Comunque,
a fronte di un incremento consistente degli ettari vitati non vi è stato
un aumento in proporzione di vino prodotto: il motivo sta nella bassa
produzione ottenuta da molti vigneti piantati recentemente, e quindi nei
primi anni della loro vita.
Per quanto riguarda le varietà coltivate la grossissima novità si chiama
Pinot grigio: nel corso di un anno la superficie allevata è decisamente
aumentata, passando addirittura da 762 a 1.081 ettari. Segno positivo
ovviamente anche per il vitigno che meglio rappresenta la viticoltura
neozelandese, ovvero il Sauvignon blanc, passato da 8.860 a 10.024 ettari.
Sbocco all'estero
Con un consumo interno pro capite non proprio esaltante, e una popolazione
non certo numerosa (poco più di 4 milioni di anime) è ovvio che la viticoltura
neozelandese punti ai mercati esteri con fiducia, una fiducia rafforzata
da previsioni che vedono il traguardo del miliardo di NZ$ alla portata
per l'anno 2010, nonché da una fama sempre più consolidata e tale da aver
finalmente cancellato l'etichetta di "enfant prodige". Il Sauvignon blanc
locale è ormai diventato un riferimento di paragone sempre più solido
con il quale fare i conti, mentre il Pinot noir viene sempre più indicato,
dalla critica anglosassone in primis, come un prodotto di assoluta affidabilità
in una fascia di prezzo in cui parecchi Borgogna non si dimostrano sempre
all'altezza del loro blasone. D'altro canto, segnali molto incoraggianti
arrivano anche dalle ricerche di mercato compiute attraverso gli importatori,
i rivenditori e i ristoratori che propongono vino neozelandese nei tre
mercati chiave, e cioè Regno Unito, Stati Uniti e Australia, cioè l'80%
del totale delle esportazioni: i risultati mostrano un interesse sempre
più crescente e che va consolidandosi rispetto al rapporto qualità/prezzo,
al cui numeratore c'è peraltro un valore piuttosto alto.
Per un pugno di dollari... NZ, naturalmente
Nonostante tutto questo, non sono proprio tutte rose e fiori: esistono
infatti una serie di problemi non proprio marginali sollevati dalla "base"
della Wine Industry locale. Quello che preoccupa maggiormente è ovviamente
legato a fattori economici, ovvero la possibilità di generare utili. E'
stata dunque commissionata un'analisi a Deloitte - nome per esteso Deloitte
Touche Thomatsu, mentre Deloitte è il nome del marchio e che fa riferimento
al fondatore William Welch Deloitte, che avviò tutto nel lontano 1833
-, società che tra le sue molte attività si occupa anche di analisi finanziaria,
dalla quale sono emersi come aspetti critici per le wineries i costi di
accisa, i costi di marketing all'estero, i tassi di interesse - in aumento
- sul denaro ottenuto in prestito nonché i rapporti di forza tra le valute.
Puntando sull'esportazione, infatti, va da sé che le fluttuazioni verso
l'alto del dollaro neozelandese - e questo è ciò che è successo negli
ultimi mesi - nei confronti di dollaro statunitense, dollaro australiano
e sterlina britannica, possano creare problemi che rischiano di penalizzare
il prodotto ben oltre la sua qualità intrinseca.
Secondo sempre Deloitte, i costi combinati tra accise e contributi obbligatori
all'ALAC - Alcohol Advisory Council of New Zealand, organizzazione che
promuove il bere responsabile - rappresenterebbero un ulteriore drenaggio
di profitto soprattutto per le aziende di media e piccola dimensione,
mettendole in condizione di svantaggio competitivo.
La scoperta dell'uovo di Colombo
Tornando a parlare di esportazione, va segnalata la recente creazione
di un nuovo marchio globale nazionale avente il suggestivo nome di "Pure
Discovery": nelle intenzioni che ne hanno portato alla creazione vi è
quella di agganciare l'esperienza sensoriale all'immaginario collettivo
che considera la Nuova Zelanda una terra giovane, incontaminata, naturale,
nella quale la produzione di vino si armonizza perfettamente con l'ambiente.
Tradotto in parole più semplici, e che girano anche a casa nostra, non
è altro che "far bere il territorio". Fino a qui non si tratta certamente
dell'uovo di Colombo, ma sia l'alto numero di adesioni tra le wineries
che l'organizzazione centralizzata dell'industria del vino locale, lasciano
intendere che l'iniziativa sarà ben supportata. Un "side effect" atteso,
inoltre, punta a esercitare un effetto di attrazione soprattutto presso
il pubblico femminile e i più giovani.
Altra idea piuttosto intelligente è quella di focalizzare gli investimenti
su particolari mercati in modo mirato, in particolare su quelli che mostrano
concrete possibilità di successo. Per esempio, alcune wineries che hanno
lavorato discretamente in Germania stanno pensando di abbandonarla per
rivolgersi piuttosto al mercato canadese, che sta regalando molte soddisfazioni
negli ultimi mesi e dove la reputazione del prodotto è tale che i consumatori
sono disposti a spendere qualcosa in più pur di mettere le mani su un
vino kiwi - l'Australia esporta 17 volte tanto ma ha un'immagine ormai
legata a vini da basso prezzo e qualità discutibile -, e soprattutto lasciare
un mercato dove ultimamente la lotta sugli scaffali si svolge prevalentemente
al ribasso. Inoltre, l'industria del vino si organizzerà in modo da individuare
opportunità di mercato "ritagliate" sulla dimensione, e quindi sulle potenzialità,
delle singole aziende, indirizzandole opportunamente verso le migliori
possibilità.
Concludendo...
Certo, le dimensioni del movimento del vino neozelandese sono tali da
poter permettere ragionamenti collettivi al fine di creare un movimento
in grado di muoversi come un sol uomo per affrontare le sfide globali.
Come in Australia, il bene collettivo - che ricordiamo compie anche tanta
ricerca - viene supportato economicamente anche dalle stesse aziende.
Osserviamo e impariamo, allora, magari se ne potrà trarre qualche vantaggio.
Riccardo Modesti
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