Una lezione di buon senso
Ovvero: quando si guarda al mercato asiatico bisognerebbe evitare
di fare di tutti gli occhi a mandorla un fascio.
di Riccardo Modesti
Per entrare nell'argomento
Non dimenticherò mai la mia breve esperienza negli Stati Uniti, che fu
ormai molti anni fa, nella mia vita professionale precedente. Fu un periodo
di tre settimane che trascorsi ad Atlanta presso una società di produzione
di software per un programma di formazione su un programma che avrei poi
dovuto personalizzare per il mercato italiano: laggiù strinsi rapporti
amichevoli con molti ragazzi "Born in the Usa", e ricordo bene quanto
mi stupii della loro ignoranza sulla geografia europea, al punto di confondere
tra loro Austria e Australia. L'Europa delle mille culture e dei mille
popoli, per secoli in perenne conflitto, risultava per loro una realtà
distante anni-luce della quale avevano pochissimi punti di riferimento.
Eppure si trattava di persone di un livello culturale, per i parametri
locali, piuttosto elevato, con un'intelligenza e un senso critico piuttosto
brillanti e non assimilabili a quello di sempliciotti allevati ad hamburger
e football NFL.
Quale è la morale, dunque, di questo breve aneddoto? Che quando l'occhio
si sposta di migliaia di chilometri su realtà diverse dalla propria bisognerebbe
adottare alcune precauzioni indispensabili per evitare di andare a sbattere
alla prima curva. Bisognerebbe calarsi nella mentalità locale, bisognerebbe
informarsi su ciò che piace e che non piace, bisognerebbe documentarsi
sulla storia, sulla cultura e perfino sulle superstizioni. Questo vale
ancora di più per chi non deve solo compiere un breve viaggio in un Paese
lontano ma in detto Paese debba instaurare rapporti commerciali. Chi vuole
vendere vino sul mercato asiatico, per esempio, ha subito un problema:
se già quando "quelli con gli occhi a mandorla" sembrano tutti uguali
quando sciamano allegri per i centri storici italici, quanto diversi l'uno
dall'altro saremo in grado di percepirli nel momento in cui andremo a
considerarli come mercato?
Tutti uguali
Così, coreani, giapponesi, cinesi, vietnamiti (e qui mi fermo), ci sembrano
tutti così simili tra loro da finire con l'appartenere a un'unica entità
indistinta. Messi tutti assieme superano di gran lunga il miliardo e mezzo
di persone: tutti individui diversi tra loro, appartenenti non solo a
culture differenti ma a realtà locali pure differenti. Hanno un senso
del gusto differente l'uno dall'altro perché nel corso dei secoli lo hanno
sviluppato secondo una abitudini differenti. A pensarci bene sembra ovvio
che un coreano sia un mondo a parte rispetto a un giapponese: ma noi siamo
europei, e siamo portati di primo acchito a notare solo che sia il coreano
che il giapponese hanno gli occhi a mandorla, hanno un sistema di scrittura
impenetrabile e hanno nomi dalla spesso difficile pronuncia. Beninteso,
lo stesso chiaramente vale alla rovescia. Io stesso non saprei posizionare
con certezza il Wyoming su una carta geografica degli Stati Uniti: tuttavia,
almeno per il momento, non ho il problema di dovere vendere un mio prodotto
nel Wyoming, e quindi ho ancora un po' di tempo per prepararmi...
Qualche accortezza
Veniamo però al nocciolo dell'articolo, ovvero il seminario che Poh Tiong
Ch'ng - editore e giornalista, nonché "columnist" di Decanter, operante
in estremo Oriente - ha tenuto durante Enoforum, la tre giorni organizzata
da Sive (Società Italiana di Viticoltura ed Enologia) in collaborazione
con Vinidea che ha radunato a Piacenza dal 13 al 15 marzo oltre 600 professionisti
del settore e una messe di relazioni, seminari e incontri sullo stato
dell'arte dell'enologia e della viticoltura. Due parole su Enoforum, un
appuntamento che non ha pari sul suolo nazionale per due buone ragioni:
l'alta concentrazione di temi diversi tra loro e di personalità operanti
nella viticoltura e nell'enologia; il costo decisamente contenuto in rapporto
alla concentrazione di temi. Insomma, chi non c'era si è perso qualcosa.
Ma torniamo a Poh Tiong Ch'ng e al suo seminario, dal titolo "Comprendere
i gusti e le aspettative dei consumatori dei mercati asiatici", e a cosa
ci ha raccontato l'illustre ospite durante l'ora abbondante a sua disposizione:
- non esiste un consumatore "tipo" asiatico, come
spesso erroneamente si ritiene;
- a Shangai si mangia pollo e a Pechino (30 milioni
di abitanti, stesso numero di abitanti di metà dell'Italia in un'unica
città) si mangia anatra: nel nord della Cina si mangiano spaghetti,
nel sud è preferito il riso: nel nord della Cina si beve te nero parzialmente
fermentato, più astringente, nel sud te verde, meno astringente;
- in India (1,2 miliardi di persone) esistono
più di 100 lingue diverse e modalità di scrittura pure differenti, ma
la lingua inglese è fattore unificante e si gioca a cricket,: in Cina
(1,3 miliardi di persone) non si gioca a cricket, la cultura tradizionale
è tenacissima, l'individualismo forte e tutt'altro che spezzato dal
comunismo;
- in Cina, nonostante siano sbarcati McDonald's
e i suoi fratelli, la cucina regionale resiste, è estremamente diversificata
e caratterizza l'offerta nei supermercati;
- in Cina esiste una affinità maggiore al vino
rispetto all'India perché in Cina le persone sono più abituate all'alcol
e la letteratura cinese è zeppa di brindisi di benvenuto e di commiato,
nonché di occasioni durante la vita di tutti i giorni ; in India vi
sono precetti religiosi e preconcetti culturali nei confronti dell'alcol,
e di fatto sono solo gli strati sociali più alti a consumare bevande
alcoliche;
- con riferimento all'aspetto gastronomico, il
gusto del cinese medio è più abituato alle sottigliezze e alle complessità
di quanto possa essere quello dello statunitense medio;
- il vino è un prodotto tutto sommato nuovo per
i mercati orientali, e proprio per questo il consumatore deve essere
messo nelle condizioni di poterlo capire nelle sue sfumature e nelle
sue diversità (varietà utilizzate, annate diverse, affinamenti dall'impatto
sensoriale più o meno accentuato): proprio le grandi diversità potenziali
tra un vino e l'altro possono ingenerare confusione; la capacità di
cogliere le sottigliezze da parte dei locali, comunque, è un aspetto
di cui tenere conto per "educare" il consumatore;
- il vino non è un prodotto che fa parte della
vita di tutti i giorni e non è, soprattutto, necessario alla gente comune;
- in quanto prodotto dall'uva, chi si avvicina
al vino si aspetta di ritrovarne il carattere fruttato e dolce: proprio
per questo il non plus ultra come approccio iniziale al vino è rappresentato
da prodotti tipo il Moscato o il Sauvignon; proprio per questo il consumatore
alle prime armi penalizza il carattere "boisé"; i vini secchi vengono
comunque accettati e bevuti, anche se un pizzico di residuo zuccherino
è comunque gradito;
- sono percentualmente pochi i cinesi che leggono
Wine Spectator o girano su internet alla ricerca di informazioni sul
vino: va da sé che il gusto "tipo" presenta una impostazione piuttosto
elementare, che può però ha rapidi margini di miglioramento (ricordate
le sottigliezze?) se opportunamente educata;
- il produttore di vino deve mostrarsi come uno
che fa questa attività perché è la passione della sua vita - se poi
lo è davvero tanto meglio -, non uno che lo fa per mero business;
- spiegare il proprio prodotto cercando: di abbinarlo
alla cucina locale (si sottolinea bene locale), meglio se su piatti
consumabili con una certa frequenza; di utilizzare paragoni con qualcosa
di facilmente comprensibile e tangibile per l'asiatico di turno, secondo
il luogo in cui ci si trova, anche per quanto riguarda il concetto di
terroir;
- essere molto attenti agli aspetti legati alla
superstizione o al retroterra culturale tradizionale, per esempio evitando
quanto più possibile in Cina di riferirsi a numeri contenenti il 4 -
di cattivo presagio - e puntare piuttosto sull'8 - indica prosperità
e buona fortuna -, oppure di mettere fiori bianchi su un'etichetta in
quanto utilizzati in situazioni di lutto - essendo il bianco il colore
del lutto, il relatore ha spiegato in maniera chiara come l'opportunità
o meno di tradurre letteralmente nomi anche prestigiosi come "Cheval
Blanc" possa davvero creare grossi imbarazzi -: essere parimenti attenti
alle sonorità equivalenti che il nome di un vino può avere nella lingua
locale, poiché l'effetto risultante potrebbe essere devastante - dalla
massima ilarità fino all'offesa -; poiché il rosso è considerato un
colore dall'accezione positiva, il vino rosso è quello che, d'impatto,
ottiene un riscontro di successo immediato;
- dare un nome locale univoco al vino, rinunciando
magari alla traduzione letterale quando caratterizzante in modo negativo:
in particolare, il relatore ha spiegato come la scelta di un nome alternativo
dalla sonorità accattivante possa essere premiante in quanto di facile
memorizzazione da parte del consumatore; una volta però approdati al
nome giusto è però opportuno registrarlo per evitare possibili scopiazzature;
- investire del tempo e dei soldi per girare il
Paese, osservare le persone, annusare l'aria, assaggiare ciò che mangiano;
da questi elementi trarre ispirazione e indicazioni per "raffinare"
il proprio modo di porsi nei confronti dei locali;
- esiste un'affinità maggiore di quanto si pensi
tra la Cina e gli Europei: la centralità della famiglia, del buon mangiare
e del buon bere, una cultura millenaria sono elementi che gettano un
ponte ideale tra queste due realtà così lontane.
In conclusione...
Poh Tiong Ch'ng è stato nell'occasione non solo un relatore dall'incedere
pimpante e dalla esemplare chiarezza espositiva, ripetendo più e più volte
quanto sia importante, per chi voglia aprirsi un mercato in Oriente, legare
il vino alla cultura locale, ma anche e soprattutto un dispensatore di
buon senso. I concetti da lui esposti sono stati infatti talmente semplici
da risultare quasi banali, talmente banali da spesso sfuggire di mano
nel tentare di costruirci uno schema semplificato della realtà, uno schema
più limitato ma più comprensibile, e per questo più rassicurante. Bisognerebbe
dunque evitare l'approccio "all'occidentale" - che ha anche un retrogusto
di sapore un po' coloniale - laddove non ci siano i presupposti per farlo,
ed elaborare uno schema diverso. Altrimenti si finisce come Lindemans,
noto marchio australiano, che ha elaborato una strategia commerciale per
la Cina basata sull'idea che il testimonial di turno, che nella fattispecie
fu Jackie Chan, potesse fungere da traino per agganciare il prodotto a
un'immagine rassicurante e familiare per il consumatore. La campagna fu
però un fiasco per il fatto che Jackie Chan non è considerato né un ottimo
attore né un intenditore di vino: insomma, i cinesi forse sono davvero
più sottili di noi, visto che siamo ancora fermi a testimonial come Mike
Bongiorno o Pippo Baudo pensando chissà cosa...
Riccardo Modesti
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