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Apologia della globalizzazione nel mondo del vino
di Slawka G. Scarso

C'è chi parla di globalizzazione come se si trattasse di fillossera. Il più recente male che sta affliggendo la vite, per giunta in tutto il mondo, con una diffusione così capillare che neanche le viti allevate ai limiti della zona coltivabile riescono a scampare. Altro che piede franco!
Ma è davvero così "cattiva" la globalizzazione? Quali sono dunque i suoi effetti?

Tra gli elementi negativi c'è innanzitutto il problema più grande legato alla globalizzazione, e cioè l'omogeneizzazione della produzione. Pensiamo ad esempio al diffondersi ovunque di vini che rispondo al cosiddetto "gusto internazionale". O al fantomatico vino-cocacola, cioè un'etichetta unica, distribuita in tutto il mondo di cui si parlava tempo fa. O più recentemente alla prossima modifica della denominazione tedesca Mosel-Saar-Ruwer in un semplice Mosel perché il consumatore, magari straniero, non riesce a pronunciare il nome del vino.

Anche la creazione di multinazionali che arrivano e assorbono qualunque azienda attragga il loro interesse non è meno importante. Se poi la concentrazione del mercato in senso più ampio sia un vero difetto, questo è da valutare. Il mercato del vino è il meno concentrato in tutto il settore delle bevande, alcoliche e non, in Italia e all'estero. L'indice di concentrazione si misura in relazione alla quota di mercato detenuta dalle principali società a livello mondiale: nel caso del vino, negli anni Novanta, la concentrazione era pari ad un modesto 6%, contro il 78% delle bevande alcoliche ma anche il 35% della birra. Questa polverizzazione del mercato ha il difetto di confondere il consumatore, che non sa davvero che cosa scegliere tra tante etichette diverse, rendendo complesso ogni progetto a favore della costruzione del brand.

Un'altra implicazione della concentrazione è la verticalizzazione del settore: attraverso quest'ultima ogni fase del processo produttivo vieni inclusa in una stessa società che quindi si trova a produrre le uve, vinificare, imbottigliare e magari anche distribuire attraverso la grande distribuzione. Col rischio di veder nascere dei veri e propri oligopoli.

Esistono però anche degli effetti positivi dello stesso processo. Innanzitutto grazie alla globalizzazione del mercato diminuiscono i costi di transazione. Inoltre, si possono trasferire il know-how e la tecnologia dal Vecchio al Nuovo Mondo e viceversa - facciamo ad esempio riferimento alle aziende italiane e francesi che decidono di acquistare delle aziende in America Latina portando qui i vitigni tipici della loro zona di origine, o magari al processo inverso di applicazione in Europa di quanto si scopre in Australia dove una fetta del fatturato viene sempre investita nella ricerca e nell'innovazione.

Non solo: la globalizzazione, per una società, permette una diversificazione del rischio di portafoglio. Concetto complicato? Solo in apparenza, visto che gli esempi sono alla portata di tutti. Quante sono infatti le aziende vinicole che proprio grazie alla globalizzazione, in un periodo di crisi o saturazione di un mercato, hanno potuto compensare le eventuali perdite aumentando le esportazioni in un altro paese?
In conclusione la globalizzazione non è certo solamente negativa, neppure per il vino. La speranza è che le piccole aziende profittevoli riescano a mantenere i propri profitti trasferendo al consumatore il valore aggiunto della tipicità, e anzi quantificando questo stesso valore aggiunto in modo chiaro, cosicché il consumatore possa scegliere un prodotto tipico al posto di quello "omogeneizzato", un po' come già negli altri settori il consumatore sceglie la marca "premium price" anziché il prodotto "unbranded".


Slawka G. Scarso