Vini e Notizie dal Centro-Sud
Torna
all'archivio
Segnala
questo articolo ad un amico
Nuovi vecchi bianchi in Campania
di Ugo Baldassarre
Dici vino bianco e pensi, quasi in automatico, alla vinificazione
senza macerazione, in acciaio, alla maturazione in bottiglia, all'assenza
di tannini. Sono tutte operazioni, queste, che riempiono di significato
la schiacciante predilezione del consumatore, esperto o non, per il
vino rosso, per quel vino che per antonomasia "ha qualcosa in più".
Poi ti capita di parlare con il contadino, con quello che fa ancora
il suo ottimo - secondo lui - vino, il classico vinaccio, secondo
noi. E scopri che, in fin dei conti, la sua idea del vino non è così
sbagliata: è solo che non sa e si ostina a non voler sapere che con
i pochi mezzi e le poche conoscenze a disposizione non potrà mai realizzare
un vino pulito, costante o non cangiante col tempo negli aromi, nel
colore, nel gusto, ecc. E scopri anche quanto sia vero un altro detto
popolare: "ppe' fa o masto ce vonno e fierri" (per fare il maestro
ci vogliono gli arnesi buoni, le attrezzature adeguate).
Mi sovvengono queste riflessioni all'indomani di una fortunata serie
di degustazioni di vini bianchi della Campania, bianchi "nuovi" in
certo senso perchè sfuggono ai canoni dell'ordinario vinificare d'oggi,
"vecchi" al tempo stesso perchè utilizzano proprio alcune "tecniche
del contadino".
Sono tutti casi, quelli che illustrerò qui di seguito, che dimostrano
come la moderna enologia coniugata ad antiche metodologie, può condurre
a risultati di qualità superba, soprattutto in termini di finezza
e di eleganza, che possono far definire questi nuovi vini "fuori dal
comune".
Il primo caso, che mi sento di anteporre a qualsiasi altro vino, è
quello dell'Antece di De Conciliis, un Fiano IGT Paestum, bianco di
cui sono innamorato e per il quale ho sopportato simpatiche dispute
con alcuni colleghi degustatori e giornalisti di settore, che sostengono
di non ritrovare in questo caso il territorio nel bicchiere. Per contro,
rispondo io, non esiste nessun vino che sappia, con la stessa efficacia
e immediatezza, raccontare al meglio questa parte del Cilento e tutto
ciò - aggiungo - assolutamente a prescindere dai tanti premi vinti,
grappoletti bicchieri e bottigline...
E' fortissima invece l'identità territoriale dell'Antece, così uguale
nel bicchiere ai profumi della terra da cui nasce, sembra quasi sia
proprio questo fiano, d'improvviso meravigliosamente vivificato, a
chiedere di essere fatto così...Antece vuol dire antico, vuol dire
fare il vino come lo facevano una volta, in botte - anzi nelle botti,
ovviamente ripulite, in cui ha maturato l'altro grande vino rosso,
il Naima - e lasciato a fermentare e affinare sulle fecce. Niente
filtrazione, niente stabilizzazione. Il risultato è un vino carico
di colore, tendente al dorato, dai profumi intensissimi e affascinanti,
non comuni, che vanno dal fico bianco alla corteccia d'albero, dalla
paglia essiccata al sole alla vaniglia, al sandalo, alla resina di
macchia mediterranea; alla bocca è caldo, pieno e complesso, invade
il palato con la sua struttura possente. Ha purtuttavia grande equilibrio
e non mancano note fresche e sapide, di bella mineralità. Il retrogusto
è quanto mai persistente, equamente distinto tra il gusto di frutta
fresca, note vegetali di foglia d'olivo e mandorle giovani. Nonostante
lo spessore e le spiccate sensazioni pseudocaloriche, la buona freschezza
consente di accompagnarlo a meraviglia alla succulenta cucina cilentana,
con ampi margini - data l'imponenza - tra primi piatti complessi,
zuppa di pesce, carni e formaggi anche semistagionati. Personalmente
lo bevo anche a fine pasto o addirittura fuori pasto, alla faccia
di tutte le regole...
Un altro esempio evidente di ritorno al passato è quello dello Strione,
una falanghina prodotta dall'azienda Cantina degli Astroni, prodotto
da un vigneto posto sull'orlo del cratere omonimo nei Campi Flegrei,
proprio a ridosso della cinta urbana di Napoli. Il nome attribuito
a questa falanghina per assonanza ricorda appunto quello del cratere,
ma anche suggestivamente la parola stregone che, in un'area vulcanica
ricca di leggende e credenze popolari, è riconducibile alle pratiche
dell'occulto ma anche al mito della Sibilla Cumana. Come ci ha raccontato
l'enologo aziendale, Gerardo Vernazzaro, la scelta è stata quella
di sperimentare gradualmente la macerazione delle bucce, cominciando,
anni fa, con pochi giorni di macerazione sino ad arrivare ad una macerazione
protratta per tutto il periodo di fermentazione: e se questo non è
un ritorno al passato...In più, per dare una nota di eleganza e di
morbidezza a questa falanghina, si è scelto di passarne una porzione,
il 20 % circa, in tonneau di secondo passaggio, per poi riunirla alla
massa prima dell'imbottigliamento. Il periodo di affinamento è di
circa nove mesi. Il risultato di questo lungo lavoro di ricerca è
un vino di grande equilibrio, dalla notevole complessità aromatica,
in cui sorprendentemente prevale netto il legame col frutto compiuto:
sentori di uva zuccherina, di quella da servire in tavola al pasto,
albicocca matura, ananas. Ma vengono fuori anche un elegante bouquet
floreale di fiori di campo e margherite, calde note balsamiche, vaniglia
e chiodi di garofano. Alla bocca, avendo potuto provare diversi campioni,
le caratteristiche delle bottiglie presentano qualche lieve differenza
tra loro, cosa alquanto consueta nell'affinamento di vini bianchi
che adoperano il legno e fanno macerazione sulle bucce. Le note comuni
raccontano di un frutto pieno e carnoso, grande sapidità, di un insolito
piacevole tannino, leggermente astringente ma adeguato ad un vino
bianco in cui le bucce e il legno hanno fatto la loro parte. Lunghissimo
il finale, che riporta alla bocca il gusto della nocciola tostata
e fiori di camomilla.
Quanto ad invecchiamento, batte ogni rivale la falanghina dell'azienda
Fontanavecchia di Torrecuso, un vino imbottigliato e commercializzato
- in pochissimi esemplari - solo quest'anno anche se il suo nome la
dice lunga sull'età: 2001. Già, è proprio questo il semplice nome
scelto per questa vino del Taburno, proprio a voler sottolineare un
vero e proprio miracolo, che non poteva non essere realizzato dal
vitigno autoctono a bacca bianca più conosciuto della Campania: la
falanghina che proprio qui, nel Sannio, ha rappresentato il punto
di forza per la rinascita - ma forse sarebbe più giusto dire per il
vero inizio - di una viticoltura di qualità. Qui, all'inizio degli
anni '80 l'enologo Angelo Pizzi, al ritorno dall'Inghilterra dove
aveva trattato esclusivamente i bianchi internazionali, si è imbattuto
in questo straordinario e vigoroso vitigno autoctono, riscoperto di
recente dall'azienda Mustilli.
Da subito Pizzi ha creduto nelle potenzialità e nelle capacità di
invecchiamento della falanghina, perchè si presentava come il bianco
dotato di maggiore acidità e corredato peraltro da terpeni particolarmente
aromatici, con tutte le carte in regola cioè per reggere al peso del
tempo. "Se si fa un vino destinato ad invecchiare, a cosa importante
- come ricorda lo stesso Pizzi - è pensare il vitigno per l'invecchiamento,
progettarlo per quello scopo". Di qui una vendemmia particolare, atta
ad ottimizzare il corredo acido dell'uva, un po' di tannino "ellagico"
ottenuto da un passaggio di 7/8 mesi in legno, assenza di filtrazione
e stabilizzazione e infine un lunghissimo affinamento in bottiglia.
Gli effetti, in termini numerici, parlano chiaro: con una solforosa
totale che non supera 9,5 mg/l, l'acidità totale si attesta su un
valore di 6,3, l'alcol si spinge fino ai 14,5°.
Questi dati ci anticipano un vino quanto mai vivo e vitale all'esame
organolettico, con diverse sensazioni molto fini ed eleganti. Si tratta
di un prodotto assolutamente fuori dal comune, a cominciare dal colore,
oro antico con riflessi lucenti. E poi al naso, dove veniamo colti
da una piacevolissima sensazione di "calore olfattivo": semmai un
profumo può essere caldo, è questo il caso... Circa gli aromi e i
riconoscimenti si possono sprecare gli aggettivi; elegante, penetrante,
intenso, lunghissimo, ricco di mille sfumature floreali, fiori di
camomilla, mela cotogna, orzo e cannella. Un leggero pizzicore ricorda
spezie orientali, caldi unguenti balsamici, incenso profumato e chiodi
di garofano in infusione. Alla bocca in premessa di gusto una vena
dolce e accattivante conferma la nota di miele preannunciata all'olfatto.
L'acidità è davvero sorprendente. Per nulla stanco, vivo ed emozionale,
questo vino è rotondo, quasi carezzevole - ci sono evidenti spinte
di ossidazione nobile - e ad ogni sorso , ad ogni nuovo approccio
rivela nuove meraviglie...
Si presenta ancora più complesso nella lavorazione, in certo senso,
un altro Fiano del Cilento, il Pietraincatenata dell'azienda vinicola
Luigi Maffini: già la vendemmia si compone di due momenti distinti,
il primo dedicato alla raccolta delle uve nel momento tradizionale
di maturazione, verso metà settembre, l'altro dopo due/tre settimane
di surmaturazione. Quindi le masse, riunificate, vengono trasferite
in barriques nuove, in cui avviene la fermentazione a temperatura
controllata. Anche la maturazione è affidata ai piccoli legni, in
cui il Fiano resta per circa 8 mesi. Al naso questo vino, dal colore
dorato luminoso, offre un ventaglio quanto mai ampio di aromi, tutti
molto eleganti: fichi maturi e datteri, fiori gialli di campo, frutta
secca, miele agli agrumi. Non manca una inconsueta nota vegetale di
peperone verde e mentuccia selvatica. Alla degustazione è caldo e
possente, la trama fitta e compatta non presenta alcun punto di cedimento;
l'equilibrio, perfetto, si colloca molto in alto grazie all'acidità
spiccata e ad una piacevolissima morbidezza. Il tutto è condito anche
in questo caso da una gradevole "sensazione tannica da bianco", absit
iniuria verbis...Nel finale, lunghissimo, tornano le gustose note
di frutta candita e mandorla tostata.
Detto di questi quattro "bianchi all'antica", voglio raccontare brevemente
ancora di qualche altro prodotto che a mio parere rientra nell'eccellenza
enologica della Campania, ma non prima di fare un'ultima considerazione.
E' evidente, infatti, che il futuro enologico della Campania sta nella
dovizia offerta dalla sua raccolta ampelografica, nella ricchezza
di un patrimonio di vitigni autoctoni senza uguali. Ma è ancor più
evidente, circa i vitigni bianchi, che non solo i più fortunati -
o insigniti - Greco di Tufo e Fiano di Avellino si prestano a lunghe
maturazioni, ma anche la Falanghina, sia quella del Sannio sia quella
dei Campi Flegrei, e anche il Fiano del Cilento. E chissà, allora,
che presto non avremo il piacere di imbatterci in altri bianchi di
lunga gittata, magari il futuro sta proprio in un Biancolella, un
Forastera o una Coda di Volpe invecchiati...
Tra i vini bianchi che subiscono una lavorazione all'antica mi piace
ancora ricordare la Falanghina Cesco dell'Eremo di Cantina del Taburno:
si tratta di una vendemmia tardiva, seguita da macerazione prefermentativa
e successiva fermentazione in barriques. Anche l'affinamento avviene
in barriques di rovere di primo passaggio, per 4/5 mesi. All'aspetto
visivo questo vino è giallo oro, con molteplici riflessi luminosi.
Al naso, inizialmente scontroso, dopo che gli aromi si sono dischiusi
si incontra un bouquet assai complesso, prima fruttato, poi floreale,
elegante e speziato. Chiodi di garofano, finocchietto selvatico, vaniglia
e frutta secca completano il ventaglio dei profumi. Alla bocca è caldo
intenso e sapido, di grande persistenza. Il retrogusto di mandorla
tostata lievemente amara accompagna lungamente la beva.
Anche Tresinus, dell'azienda agricola San Giovanni è un Fiano del
Cilento, ma stavolta si tratta di un "vino del mare", come giustamente
è stato definito d alcuni: i vigneti si trovano proprio a pochi metri
di altezza a strapiombo sul mare di Castellabate, vicino agli scogli
di Punta Tresino. Il calore del sole e la brezza arricchiscono questo
Fiano di zucchero, profumi e sali minerali; il vino che deriva da
questo vigneto ha un gran corpo, è intenso e persistente, è sapido,
caldo e morbido, addirittura avvolgente.
Infine le vendemmie tardive, e qui voglio ancora ricordare alcune
perle enologiche: la Falanghina Vendemmia Tardiva dell'azienda Telaro,
a Galluccio in provincia di Caserta, la Falanghina Flora Gran Momento
dell'azienda I Pentri di Guardia Sanframondi (BN), e la Falanghina
Alenta dell'azienda Nifo Sarrapochiello, con sede a Ponte (BN). Pur
essendo in buona parte diversi - per stile, impostazione e terroir
- questi vini sono uniti da un minimo comun - denominatore di rilievo:
si tratta di vini emozionali, capaci di trasmettere la passione e
l'amore di chi li ha voluti; sono vini che raccontano il territorio,
che posseggono la semantica delle proprie radici, che narrano la civiltà
contadina da cui traggono origine.
Infine, nell'ideale ping-pong tra il Fiano del Cilento, e sempre a
proposito di vendemmia tardiva da uve Falanghina, voglio inserirne
una, molto particolare, ma proveniente stavolta dai Campi Flegrei:
Vigna del Pino dell'Azienda Agricola Agnanum di Raffaele Moccia. Si
tratta di un vino prodotto in numero limitato, proveniente da una
vigna posta ai margini del cratere di Agnano, alle porte di Napoli.
Qui il buon Raffaele, allevatore di conigli da sempre innamorato delle
sue vigne come un papà delle proprie creature, seleziona e vendemmia
le uve surmature di falanghina flegrea.
Vigna del Pino è un vino a dir poco straordinario. Il 2003 provato
lo scorso anno, cioè nel 2007, ha un impatto olfattivo affascinante,
dal bicchiere fuoriescono imperiose note floreali, frutta esotica
e anice stellato; questa falanghina sembra una malvasia...La bocca
non delude, come spesso accade, quanto avvertito al naso: il vino
è pregno, fresco e sapido, la spinta delle note acide torna anche
quando, dopo un po', al palato subentra con eleganza la nota morbida
e calda. Il finale è ricco di sentori maturi, di frutta secca e vaniglia.
Peccato che non tutti gli anni possa essere prodotto questo cru: personalmente
sono ancora in attesa di conoscere, dopo l'eccezionale 2003, quale
possa essere il risultato della vendemmia 2005, avendo deciso Moccia
di saltare la vendemmia 2004. Anzi, adesso che ci penso, quasi quasi
gli faccio un colpo di telefono, oramai credo che, rigorosamente dopo
il Vinitaly (badate la serietà aziendale), "l'uomo del monte", il
nostro amico enologo Maurizio De Simone gli abbia finalmente consentito
di imbottigliare...
Ugo Baldassarre
|