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Lacryma christi: che vino sarà mai ?
di Ugo Baldassarre
Il Vesuvio
Da sempre il Vesuvio rappresenta l'elemento centrale di tutto il territorio
campano. Storicamente il vulcano si è configurato come il fulcro,
non solo geografico, delle attività e delle produzioni, delle arti
e della civiltà di tutti i popoli che qui si sono avvicendati. Lungo
le sue pendici si sono addensati e succeduti gli agglomerati urbani,
sebbene spesso sotto le sue coltri ardenti siano scomparse intere
comunità. Eppure l'uomo, nel corso dei secoli della sua storia, in
ogni circostanza, all'indomani di ogni singola catastrofe, con ostinazione
è tornato a lavorare in quei luoghi minacciosi, a coltivare quegli
erti e scuri pendii. E' tornato qui, sul Vesuvio, anche per parlare
con l'anima oscura del Gigante, per rabbonirlo e carpirne benevoli
auspici. E' questa l'essenza del mistero di questi luoghi: alla base
c'è il patto che l'uomo ha stretto col vulcano, un patto che gli ha
consentito di costruire proprio qui d'attorno la sua casa, di posare
su queste contrade i suoi attrezzi, di seminare la terra e raccoglierne
in premio dei frutti davvero speciali.
I prodotti
Tra i prodotti generosi di questa fertile terra sono particolarmente
rinomati alcuni frutti come la ciliegia, l'albicocca - di cui si conoscono
almeno dieci varietà autoctone - e un tipo di noce, pressoché esclusiva
di questi luoghi, da cui si ricava un ottimo liquore nocino. Qui anche
l'uva è forte e vigorosa: i vitigni, quasi tutti a piede franco, discendono
direttamente da quegli antenati discendenti dagli Aminei di Tessaglia.
Coltivati nella fascia pedemontana fino ai 400 metri di altezza, i
vigneti traggono carattere minerale, spessore e potenza dal terreno
vulcanico. Questo è il regno del piedirosso, che in provincia di Napoli
assume il nome dialettale di "per' e palummo" per la somiglianza del
suo graspo con il piede del colombo ("columbina purpurea", per gli
antichi romani). In quest'area centrale del Golfo di Napoli il piedirosso
riassume e assomma in sé tutte le varie sfumature di gusto che lo
caratterizzano altrove, da Ischia ai Campi Flegrei, dalla Penisola
Sorrentina a Capri. Questo è anche il luogo in cui meglio si esprime
lo sciascinoso - chiamato da queste parti "olivella", come la fonte
sorgiva che scivola sull'omonimo declivo dell'Olivella, sul Monte
Somma, la più piccola delle due cuspidi vesuviane. E poi, ancora tra
i rossi, si coltiva anche l'aglianico, atto a dar forza e a definire
la composizione dell'uvaggio del disciplinare della DOC Vesuvio. Tra
i bianchi la falanghina, la coda di volpe - impropriamente chiamata
"caprettone" - la verdeca e la più recente catalanesca, importata
a Napoli solo verso la metà del '400 dagli Aragonesi.
Origini di un nome
Mito e realtà, leggenda e credenze popolari si fondono nella storia
del Vesuvio e del suo vino, il Lacryma Christi. Una di queste leggende,
ripresa suggestivamente dal grande poeta francese Alfred de Musset,
vuole che Gesù, accortosi del furto compiuto dal suo angelo Lucifero
che allontanandosi dopo la cacciata aveva rubato un pezzo di Paradiso
per farne in terra il Golfo di Napoli, pianse a dirotto e proprio
dal suo pianto nacque la vite del Vesuvio. Secondo un'altra e meno
romantica versione Gesù, comparso sotto mentite spoglie ad un eremita,
fintamente assetato gli chiese da bere e, per ricompensare la pronta
generosità di quello, trasformò la sua acqua in nettare di vino.
Certo queste leggende si perdono nella notte dei tempi, ma quel che
è sicuro è che il segreto di questo vino prezioso, come in tanti casi
analoghi del passato, fu custodito a lungo dai monaci, in particolare
dai Cappuccini che si erano insediati nella "Turris Octava", l'ex
colonia romana distante, appunto, otto miglia da Napoli. Proprio da
allora e grazie all'opera dei frati contadini, la città assunse il
nome di Torre del Greco, la città del "vino greco" che qui vi abbondava.
La DOC, il disciplinare, le aziende
Per quanto siano radicate le tradizioni del Lacryma Christi, l'istituzione
della DOC è piuttosto recente e risale al 1983. Il nome della doc
è Vesuvio e l'appellativo Lacryma Christi è la sottodenominazione
di cui il vino può fregiarsi quando la resa è contenuta al 65% dell'uva
e quando il titolo alcolometrico raggiunge almeno il 12%. Diciamo
subito che oltre il 90% del prodotto in circolazione rientra nella
sottodenominazione, mentre il restante 10%, circa 2000 ettolitri di
vino, viene imbottigliato col solo nome Vesuvio. Mentre per la doc
Vesuvio sono previste solo le tipologie bianco, rosso e rosato, per
il Lacryma sono consentite anche le lavorazioni in spumante - bianco
rosso e rosato - e la tipologia liquoroso bianco. I vitigni base indicati
dal disciplinare sono, per il bianco la coda di volpe e per il rosso
(e per il rosato) il piedirosso, previsti - se da soli - rispettivamente
nella percentuale minima del 35% e del 50%. Fermo restante il minimo
percentuale previsto di questi due vitigni, l'uvaggio del bianco può
essere fatto con verdeca ed il rosso con sciascinoso, per un minimo-somma
dei due vitigni dell'80% del totale. Per il restante 20% è consentito
l'uso della falanghina e/o del greco per il bianco e dell'aglianico
per il rosso.
Dalla scelta delle uve imposte dal disciplinare derivano conseguenze
dirette. I vitigni-base indicati dal disciplinare, la coda di volpe
e il piedirosso, se conferiscono al vino una naturale morbidezza ed
una discreta eleganza, non hanno, sul versante opposto, la necessaria
forza espressiva, l'acidità, la struttura e la potenza che invece
appartengono ai complementari verdeca e falanghina (soprattutto per
l'acidità), greco (acidità e struttura) e aglianico (in ordine a struttura,
potenza e longevità). Ciò comporta una naturale diversificazione del
prodotto finale a seconda della scelta dell'uvaggio, oltre, ovviamente,
allo stile personale di vinificazione delle varie aziende e alla scelta
dei tini di maturazione.
Anche la tradizione va modificandosi, e così nella vinificazione del
bianco mentre un tempo si sceglieva la macerazione sulle bucce, sempre
più oggi si vinifica a temperatura controllata. Nella vinificazione
del rosso sicuramente prevale l'uso dell'acciaio ma sempre più produttori,
soprattutto quelli che scelgono di adoperare l'aglianico, amano maturare
il lacryma in legno, in particolare nelle piccole barriques.
Da tutti questi elementi emerge chiaramente un quadro produttivo a
dir poco disomogeneo, da cui è difficile trarre i tratti comuni del
Lacryma Christi.
Premesso che non dirò delle aziende che risiedono fuori dal comprensorio
vesuviano e che pur producono degli ottimi Lacryma e che sono anche
"in altri vini affacendati", tra i migliori esempi di Lacryma Christi
voglio citare, in primo luogo, l'azienda di Gabriele De Falco di San
Sebastiano al Vesuvio. Questa azienda ha realizzato diversi cru tra
i quali spiccano il bianco Le Ali dell'Angelo - un'ottima coda di
volpe passata anche in legno, morbida e spessa, profumata ed elegante
- e il rosso Vigna dell'Angelo, uno dei pochi Lacryma a base piedirosso
che, nonostante il lungo affinamento di circa 18 mesi tra barriques
e bottiglia, riesca a conservare integra la trama, fitta e densa,
ed una buona acidità di bocca.
Prova di qualità costante nel tempo quella di Fioravante Romano, una
secolare azienda con sede in Ottaviano. La casa vinicola, guidata
da Sergio, pur vantando produzioni medie annuali di oltre 600mila
bottiglie, da sempre per scelta distribuisce esclusivamente agli esercizi
specializzati e punta sulle esportazioni come principale mercato di
riferimento, cui è destinata circa il 65% della produzione. Il Lacryma
bianco di quest'azienda rivela al tempo stesso forza e correttezza.
Al naso è fragrante e gentile, fruttato e mai troppo spinto, al gusto
è pieno e fresco, sapido al punto giusto e giustamente morbido: è
un gran compagno per fritture di mare, alici fritte, totani e pesce
di paranza. Il rosso di Fioravante Romano è elegante al naso, con
sfumature vegetali e speziate, pieno e succoso al gusto, ha struttura
e potenza.
Più fresco e beverino il rosso dell'altra azienda omonima di Ottaviano,
quella di Michele Romano, con note fruttate all'olfatto e grande dinamismo
al palato, dove si fondono in un ottimo equilibrio acidità, morbidezza
e vigore. Fiori di ginestra, olivelle salmastre e crosta di pane corredano
i sentori del Lacryma bianco di Michele Romano, la grande acidità
di bocca ne consiglia l'abbinamento ai formaggi freschi ed alla cucina
di mare.
I passi da gigante compiuti dall'azienda Sannino di Ercolano, soprattutto
nella capacità di evoluzione, di trasformazione aziendale e nell'opera
di continua interpretazione dei mercati, fanno di questa azienda una
delle realtà di primo piano di tutta l'area vesuviana. I vini prodotti
da Sannino negli ultimi anni - a prescindere dagli svariati riconoscimenti
ottenuti che, si badi, trovano il tempo che trovano - sono stati additati
quali modelli da seguire per tutta l'enologia del Lacryma Christi
del Vesuvio. Personalmente ritengo che Sannino realizzi il suo top
con il rosato, intrigante già dal naso, con i suoi sentori speziati,
con gli aromi di gelso e clementina, e ancor più alla bocca dove si
legano, all'interno di un'inconsueta struttura, lunghe note di acidità,
mineralità ed anche di morbidezza.
Il Lacryma Christi: un nome alla ricerca di identità
La fama di questo vino è legata probabilmente alle leggende, ma anche
agli equivoci che spesso sono sorti sulla sua identificazione. Spesso
si è creduto si trattasse di un vino dolce: c'è addirittura qualcuno
- sto parlando di persone competenti o presunte tali - che ha contribuito
a creare confusione proprio mettendo in giro altre notizie, suggestive
quanto fasulle, sull'origine del suo nome e sulle regole produttive:
"..si possono fregiare della denominazione di Lacryma Christi solo
quei vini prodotti da uve che sono state raccolte quando dai loro
acini stillano lacrime di zucchero..".
Proprio dalla sua storia, poi, si può intuire quali e quanti siano
stati i mutamenti subiti nel corso dei secoli da questo vino, mutamenti
che hanno contribuito ad una sorta di "identità perduta" del Lacryma.
Tanto per cominciare era il Greco il vitigno bianco più coltivato
che costituiva in passato la base per il vino vesuviano, l'aminea
gemina del Besubion di cui ci hanno tramandato doviziose notizie Strabone,
Marziale, Plinio e Columella. Invece il Greco oggi è consentito che
possa soltanto concorrere, da solo o con la falanghina, a non più
del 20% dell'uvaggio del Lacryma Christi. Anche la catalanesca, sebbene
nuovamente vinificabile a partire dalla vendemmia 2006 e nonostante
la sua presenza storica sul territorio, essendo consentita - almeno
per ora - solo per farne vino da tavola, non può essere utilizzata
nella DOC Lacryma.
Anche il nome, questa seducente definizione "Lacryma Christi" non
aiuta, e non solo i profani di vino ma anche consumatori poco esperti,
a legare questo vino al suo territorio d'origine. In realtà basterebbe
sapere che il nome della DOC è "Vesuvio" per collegarlo facilmente
alla sua dimora d'origine. Invece proprio la sottodenominazione della
DOC, il nome Lacryma Christi ha reso questo vino famoso in tutto il
mondo ma non aiuta forse a capirne la provenienza. Il Lacryma infatti
è chiamato e conosciuto con questo nome ormai da secoli ed ha fatto
la sua fortuna sicuramente più all'estero che in Italia. A riprova
di ciò ci sono i fatturati ed i numeri sulle produzioni, che evidenziano
la prevalenza delle esportazioni rispetto al mercato nazionale. Più
della metà dei 21.000 ettolitri prodotti oggi sono destinati ai mercati
stranieri, in particolar modo al mercato a stelle e strisce.
Altro motivo di confusione, o meglio di mancata identificazione con
il territorio d'origine, è la presenza di numerose e rinomate cantine
che producono il Lacryma al di fuori dell'area d'origine. Il territorio
della DOC comprende infatti quindici comuni della provincia di Napoli,
praticamente l'intero comprensorio geografico alle pendici del vulcano.
Qui si trovano i 290 ettari di vigneti, "polverizzati" fra una miriade
di piccoli conferitori e 19 vinificatori, tra i quali solo in pochi
sono a loro volta anche proprietari: la superficie media, molto al
di sotto della media nazionale, non supera un moggio di terreno.
Nel resto della provincia di Napoli, ma fuori dalla DOC, si collocano
ancora 6 produttori, e un'altra decina lavorano il Lacryma nelle province
di Avellino, Benevento, Caserta e Salerno. Uno di questi produttori,
Mastroberardino, è sicuramente un faro per l'enologia campana ed è
stato anche tra i pochi a credere nelle possibilità del Lacryma Christi,
diventando l'unico vero riferimento per tutti i produttori.
Anche Sergio Romano, brillante enologo dell'azienda Fioravante Romano,
nonché di altri produttori di Lacryma, crede che manchino queste strategie:
"Comunicare un vino significa comunicare il territorio, e quando sul
territorio mancano i punti di riferimento tutto è più difficile. Sicuramente
Mastroberardino rappresenta una guida e un esempio per tutti, ma non
ha sede nel territorio vesuviano. Per il Lacryma Christi ci può essere
un futuro, invece - afferma Sergio Romano - solo con la valorizzazione
del territorio e con la identificazione del prodotto con il territorio
stesso. A sua volta poter identificare un vino con il territorio d'origine
significa renderlo riconoscibile".
Una delle cause principali dell'assenza di una vera, marcata affermazione
di questo vino e delle sue grandi potenzialità, sta probabilmente
proprio nella mancanza di un sistema di mercato efficace, nell'assenza
di un marketing congiunto o più semplicemente di strategie di comunicazione.
Ma la recente creazione di un Consorzio del Lacryma Christi, sempre
che non si tratti dell'ennesimo tentativo destinato a fallire, e l'esistenza
di una Strada del Vino che fa capo a Antonio Pesce, enologo fra i
più attivi in area vesuviana, fanno ben sperare. A ciò aggiungiamo
che buona parte del territorio del Lacryma ricade nel Parco Nazionale
del Vesuvio, in un'area quindi protetta per legge, anche se la più
piccola d'Italia, con appena 8.400 ettari.
Secoli di storia dal futuro incerto...
Destino curioso, quello del Lacryma, che deve la sua fama attuale
più ad aziende irpine, come Mastroberardino e Terredora, nonché alla
casa flegrea Grotta del Sole, quanto piuttosto agli opifici del luogo.
Eppure raramente si trovano, all'interno di una DOC, tante aziende
storiche, alcune addirittura secolari. Basti citare il pioniere del
Lacryma Christi, Saviano 1760, il cui nome ricorda l'anno di fondazione,
o come la cantina Scala, nata a Portici all'inizio dell'800. O ancora
le secolari attività di Fioravante Romano e di Romano Michele. E quasi
tutte le altre hanno dovuto salvare le proprie strutture dalle distruzioni
delle guerre mondiali o hanno dovuto reimpiantare le vigne dopo l'ultima
eruzione del Vesuvio...
C'è un altro fenomeno che riguarda il piccolo mondo del Lacryma Christi:
qui non si assiste a grandi ricambi generazionali, anzi...Non si moltiplica
il numero di aziende, come accade quasi quotidianamente per i vini
più blasonati, soprattutto grazie al fenomeno della trasformazione
degli ex conferitori d'uva in neoproduttori. Forse perchè fare il
Lacryma Christi è un po' come i mestieri di una volta, quelli che
non rendono molto ma gelosamente si tramandano di padre in figlio,
finché prima o poi, tra i discendenti, qualcuno interrompe la miracolosa
catena perché, si sa, ci sono sempre mestieri meno faticosi e più
redditizi...
Eppure c'è qualcuno, come Mariarosaria De Rosa e Massimo Setaro, giovane
coppia alla conduzione di Casa Setaro, che da poco ha deciso di iniziare
una produzione di vino ed ha scelto di farlo proprio con lo scontroso
Lacryma. Nel corso di questi primi tre anni i loro vini si sono incredibilmente
ingentiliti: il bianco ha saputo smussare alcune asperità, in particolare
la mineralità eccessiva, ed il rosso ha acquistato forza ed espressività,
ristabilendo un gran bell'equilibrio gustativo. Il vino di punta,
poi, il rosso Don Vincenzo con sole due esperienze di vendemmia già
si presenta assai fine e armonioso: al naso è molto ricco con aromi
balsamici e di frutta matura, spezie e caffè tostato. Alla bocca è
dinamico e potente, ancora di buona acidità; il finale è lungo e carezzevole.
E allora, ben vengano nuove aziende che oggi, potremmo dire, "coraggiosamente"
intraprendono la lavorazione di questo famoso e difficile vino del
Vesuvio ed io, anziché giocare una puntata facile facile sul futuro
della viticoltura del nuovo Sannio, del Taurasi o del Fiano di Avellino,
io tifo Lacryma, tieh..!!
Ugo Baldassarre
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